Un compagno di scuola, mi chiese se potevo adottare un cucciolo di cane. La proposta mi colse di sorpresa, proprio nel momento in cui avvertivo il
bisogno di completarmi, sentivo di essere di più di quello che apparivo, potevo rendermi utile, fare del bene!
Il solo pensiero mi proiettò in una realtà diversa dall’immaginario. Non lo conoscevo ancora, eppure sapere che qualcuno in qualche modo mi stava cercando, riempiva i miei pensieri, dandomi fin da subito una sensazione rigenerante… arriva sempre tutto al momento giusto!
Sapevo che non sarebbe stata cosa facile, ma ero risoluta e decisa, pronta ad affrontare chiunque avesse ostacolato le mie intenzioni, e lo avrei fatto per amore, solo per amore. Per fine settimana me lo avrebbero affidato; ma era appena lunedì, ed ogni giorno che passava accresceva la mia impazienza.
Contavo le ore, i minuti… “e fu sera e fu mattino”… e quando giunse il sabato, lo scorrere dei secondi fu palpabile.
All’uscita di scuola dovetti decidere in fretta, l’autobus che mi riportava a casa non mi avrebbe aspettata di certo, e poi c’era un problema, il cucciolo di cane concordato non era maschio. Potevo anche venir meno alla parola data; ma, ormai, faceva parte di me. E poi, mi dicevo, se si vuole far del bene, non importa a chi lo fai, l’importante è farlo.
Salimmo sul pullman degli studenti, e fu difficile farla viaggiare in incognito. Era vietato il trasporto di animali sui mezzi pubblici. La misi in un sacchetto di plastica e cercai di nasconderla nello zaino, in mezzo ai libri, stando ben attenta a non comprimerla.
Quando il bigliettaio finì di fare il suo lavoro e prese posto, attaccai il sacchetto di plastica al gancetto dello schienale che avevo davanti. Il cucciolo, intuendo lo scampato pericolo, fece capolino, mostrando anche le zampette anteriori. Era buffa, sembrava come affacciata dal davanzale d’una finestra.
Ci guardavamo con curiosità reciproca. Con le orecchie basse, appesa in quel sacchetto, dondolava nelle curve, come un pendolo in mezzo ai pendolari.
Giunte a destinazione, un vicino di casa si prodigò a liberarla dai parassiti. Potei guardarla nell’insieme: tremante ed impaurita, umiliata forse, piccola ma aggraziata, con una macchia bianca a forma di rombo sul petto, pelo corto del colore delle nocciole e con lo sguardo pieno d’interrogativi. Prevalentemente di razza pinscher, ma il mezzosangue del volpino che era in lei, la rendeva particolarmente bella.
Con le mie sorelle cercammo un nome che le calzasse a pennello: optammo per Jinny, il nome di una magica fatina che, “dimenando” i suoi capelli legati a coda di cavallo, era in grado di realizzare ogni desiderio espresso. Un personaggio d’animazione.
Più tardi il nome scelto si rivelò molto appropriato.
La mia vita adesso era al completo, mi sentivo realizzata.
Arrivò l’estate, le scuole chiusero, ed io e Jinny riprendemmo ancora una volta il pullman dirigendoci verso la montagna. Questa volta fu impossibile contenerla nel sacchetto, non perché era cresciuta; ma per colpa dell’argento vivo che aveva addosso: le impediva di stare ferma. Così il bigliettaio, sempre lo stesso, ormai cieco, senza pronunciare parole, le permise di gironzolare in mezzo ai sedili vuoti.
Ora qui viene il bello; potrà sembrare strano, ma i miei genitori che per lavoro abitavano in montagna tutto l’anno, videro Jinny per la prima volta. Come avevo sospettato, mio padre non capì l’utilità di quel minuscolo cane; ne aveva tre di cani, grossi e neri, veri guardiani. Quest’ultimi, dopo averla annusata, ritornarono ai loro oziosi sonni diurni, senza darle troppo peso. Così Jinny prese in mano la situazione e, dopo aver passato in rassegna tutto il territorio, montò di guardia spodestando i veri cani guardiani.
Anche per mamma si rivelò fin da subito un valido aiuto. Poteva allontanarsi in tutta tranquillità dal bancone del bar e dedicarsi in altre faccende. Jinny l’avrebbe avvisata per tempo dell’arrivo degli estranei. Ogni cliente che entrava nel bar, portava con sé un sorriso: “Signora, siamo sicuri che il cagnolino non mi sbrana se entro?”. Abbaiava con un tale impeto da farla vacillare, un vero spasso, tutta indaffarata! Mamma la chiamava “il cavalluccio” per quel suo modo simpatico di andare al trotto… piegava le zampette e, quando si fermava di scatto, ne lasciava una sollevata a mezz’aria, come pronta a ricevere un baciamano: una vera principessa!
Non ebbe mai un guinzaglio, né tantomeno un collare, era libera, aveva appreso tutte le regole senza che nessuno gliele impartisse, per istinto naturale. Sapeva che eravamo noi la sua famiglia, conosceva l’ora che doveva rincasare e rincasava; ma purtroppo, quando noi ragazze ritornammo al paese per l’apertura delle scuole, Jinny dovette rimanere in montagna per dare alla luce i suoi cuccioli. Conobbi solo Gambadilegno, che essendo il più malconcio, mio padre lo lasciò alle cure della madre. Gli altri quattro cuccioli, sicuramente trovarono delle buone famiglie adottive.
Qualche tempo dopo, mio padre vendette un terreno di proprietà ad un tizio del paese e, poiché questo tizio aveva espresso il desiderio di avere un cagnolino come il mio, mio padre pensò bene di fargliene dono. Così Jinny ritornò al paese pure lei, ma con un altro mezzo di trasporto, perdendo in questo modo, ogni sorta di riferimento con la sua-nostra famiglia…
Dal canto mio non mi davo pace, l’ho cercata Jinny, eccome se l’ho cercata! Ho anche provato di rintracciare il compratore; ma di lui non si sapeva nulla. Qualche volta andavo per le vie fuori mano del paese, dove pensavo potesse abitare uno che compra un oliveto e la chiamavo con tutto il fiato che avevo in gola…” Jinny…..Jiiiinnyyyy” ma la mia voce restava inudita.
Era di sabato, ancora una volta un sabato, con le mie sorelle, sedute in cucina, parlavamo di lei, di Jinny. Desideravamo che fosse lì, con noi. Ero tormentata dal rimorso per essere venuta meno alla promessa che mi sarei presa cura di lei. Il mio umore e la mia dignità, erano finiti sotto le suole delle mie scarpe… quando improvvisamente, come per magia, sentimmo un mezzo abbaio e poi grattare fuori dalla porta di casa.
In un secondo realizzammo e giù di corsa ad aprirle la porta. Lei salì con noi in cucina. Cercavamo di accarezzarla e di prenderla in braccio, ma lei, che non è mai stata di troppe smancerie, non si lasciò prendere. La sua coda si dimenava velocemente e ci baciava le mani senza fare alcuna differenza tra me e le mie sorelle. Stavamo complottando di tenerla nascosta, intanto le offrivamo da bere e da mangiare. Rifiutò tutto, era impaziente, dimostrò di volersene andare. Le aprimmo la porta a malincuore e, appena varcata la soglia di casa, si dileguò al galoppo, svoltando a sinistra nel vicolo, in direzione della chiesa. Fu impossibile seguirla! Non ero più la sua “padrona”, e lei non avrebbe tradito, tornava a casa…
Quante altre volte sarà venuta a cercarci? Adesso ero io ad avere molti interrogativi! Ne feci quasi una malattia e mio padre, mosso a compassione, chiese notizie al compratore: “mi dispiace!” gli rispose quest’ultimo, “stava bene, non so cosa le sia successo, gli ultimi giorni non voleva più mangiare… una mattina l’ho trovata raggomitolata sul sedile della mia ape, credevo dormisse….”.
Il ragazzo che me l’ha affidata, aveva riposto in me la sua fiducia, convinto che mi sarei presa cura di lei. Io ho riposto in mio padre la fiducia. Mio padre nel compratore, eppure c’è stato un punto di rottura, un anello debole, addirittura mancante…. il mio! Non sono stata in grado di permetterle
di invecchiare! Ho imparato che un gesto affettuoso, può risultare più gradito di un dono materiale, e che la tenacia aiuta gli audaci, me lo ha dimostrato Jinny, il mio cagnolino.
Venendomi a salutare mi ha anche dimostrato che volere è potere: è riuscita a fare, come “cane”, quello che io, come “persona”, non sono riuscita a fare… cercare e trovare! E poi, ne vogliamo parlare? Con quel suo piccolo gesto ho potuto sperimentare il perdono, un dono di incommensurabile
valore.
Adelaide Lazzarini
Tratto da Cotroneinforma n. 142/2021
Adelaide Lazzarini,un diamante che splende giorno dopo giorno di più…….complimenti! Ho molto apprezzato l’articolo. Raffaella Pavone