L’ospite intruso di Toto Carnuccio

Per cogliere l’essenza della singolarissima silloge intitolata “L’ospite intruso”, che non trova riscontro in tutta la tradizione letteraria, occorre tener presente che tra le ragioni di fondo della sua ispirazione non c’è l’intento di cimentarsi con un esercizio poetico fine a se stesso o con una prova meramente calligrafica, dal momento che Toto Carnuccio non concepisce la poesia né come un prodotto artistico di mera bellezza, né come uno strumento di svago o di consolazione, ma come coraggiosa e fedele adesione all’effettiva condizione esistenziale dell’uomo. Attraverso le sue centoundici liriche la silloge apre uno spaccato sulla dolente esperienza esistenziale vissuta da una coppia di coniugi anziani, l’uno legato all’altra da un affetto, la cui dolce intensità è venuta ancor più accrescendosi per il sopraggiungere di un “ospite intruso”, un raro e misterioso morbo che, colpendo l’amata consorte, la costringe a vivere in uno stato di limitata coscienza.
La congiunzione tra il dolore e la memoria, che si concreta attraverso l’atto poetico, costituisce l’importante e originale contrassegno della silloge, nella quale a fungere da filo conduttore e da fonte dei molteplici spunti da cui risultano intessute le liriche è appunto la memoria. Si tratta di ricordi legati a semplici eventi o a forti sensazioni, come quella dello spavento per la figlioletta sfuggita improvvisamente di mano: “Lo serbo nel profondo il tuo spavento/ ché la carie del tempo non si ottura” (LXXXIII); o a qualche intenso momento della vicenda amorosa, come quello teneramente rievocato nella lirica: “Senza dire niente a nessuno/ (…) giungeremo nella radura/ dove ti rincorrevo a perdifiato / poi a ridosso del bosco nell’alcova/ perdevi i sensi” (XXI).
Nel cercare di aderire quanto più fedelmente alla triste realtà rappresentata, la silloge assume una struttura quasi diaristica, rappresentando la vita dei due coniugi durante un ben preciso arco di tempo, del quale si esplicitano l’inizio e la fine, oltre che gli aspetti più toccanti.
Le giornate sono cadenzate dall’andamento del morbo, il quale fa la sua prima comparsa nella lirica (VIII): “Dal giorno in cui il morbo ti ha acciuffato/ sei una Rosa sola esposta al vento”, per poi prendere il nome di intruso nella lirica (IX): “E ho visto la tua fronte china/ davanti all’intruso/ che è venuto a prendersi tutto / di te”, finché i due termini saranno affiancati l’uno all’altro nella lirica: “In quest’empio agosto/ compie sette anni l’ospite intruso” (XVI).
Uno dei più significativi simboli della silloge è quello costituito dall’olivastro, al quale il poeta rivolge solenni domande sulla vita, perché in esso sa di trovare la saggezza che altri semplicemente ostentano, e che dalle fronde gli risponde che la vita è sospesa “tra il reale e il sogno”.
Altro simbolo è quello dei fantasmi, dei quali il morbo si serve per assediare di continuo la mente di Rosa e il cui termine ricorre per ben otto volte nella silloge. Pure nella lirica del congedo (CXI), il poeta si richiama all’immagine dei fantasmi, raffigurati nell’atto di una “danza” che simboleggia il crudele sberleffo degli stessi nei confronti del suo “canto doloroso”.
Il merito che va ascritto a Toto Carnuccio è quello di essere riuscito ad incarnare ogni lirica in uno stesso drammatico vissuto esistenziale e a realizzare un’opera poetica di indubbio valore artistico, interamente pervasa com’è da una pietas indugiante e meditabonda e in quanto arricchita dalla bellezza del lessico, nel quale risultano magistralmente accostate parole semplici, tratte dal linguaggio comune, ad altre di rarissimo uso e dal
sapore marcatamente letterario, come lamica, sventato, luminio, dirute, sfiamma, s’abbruna, sgronda, strinava, illune, gargia, repe, fiorrancini, dismatriato, rabido, racemo, giunchiglia, l’abbrivo, zana, rama, sfrombola, granivano, stramare, ecc.
Un evidente pregio della silloge è costituito dall’ottima tessitura delle liriche, le quali sono impreziosite dalla ritmicità musicale del verso e rese espressivamente efficaci dall’utilizzo di figure retoriche come la metafora, la similitudine, l’iperbole, la sinestesia e il chiasmo. Nella lirica , “Lungo è l’inverno e l’umido germoglia” (LXVI) si colgono, ad esempio, le due belle metafore dell'”inverno” e dell'”umido“, l’iperbole “si abbassa il cielo“; l’originalissima sinestesia “cereo lamento”, in cui la sensazione visiva del pallore della cera è accostata al sonoro pianto di Rosa e, infine, il chiasmo
di rara bellezza: “fine del viaggio che si avvicina” e “s’allontana il miraggio che ti accolga“. Altrettanto felici le figure retoriche di suono, come rime, rime al mezzo e allitterazioni, attraverso cui il poeta accentua la musicalità di ciascun componimento.
La silloge – a volerla definire sinteticamente con le parole stesse di Carnuccio – è una continua carezza all’amata, la cui sofferenza rende quotidianamente più dolce l’animo del poeta: “Ah, poterti dire un giorno /che mi ha donato dolcezza/ il tuo dolore” (LXXI).

 

Franco Federico

 

Tratto da Cotroneinforma n. 142/2021

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