Essere un migrante è difficile, essere un migrante che lascia il proprio paese per un altro.
Oggi si parla di immigrazione, quando un africano va in Europa. A volte, i paesi occidentali sono la causa per cui i nostri paesi
sono destabilizzati. Sì, le società occidentali e il colonialismo europeo (insieme ai leader africani che ci hanno venduto all’uomo bianco e ora
vivono nel lusso nei nostri paesi, guardando i loro figli morire nel Sahara o nel Mediterraneo) sono le ragioni per cui non possiamo restare lì e sopravvivere.
Essere un migrante significa essere sempre vulnerabile lungo la rotta migratoria, vivere con i resti che gli altri vogliono darti (lo raccontano anche le organizzazioni umanitarie, essere migranti significa dormire nel freddo dei campi del nord del Marocco, psicologicamente inferiori a quelli che ci chiamano “Aziz”).
Essere migranti è andare in Europa e capire che non è l’Eldorado; anche in Europa, dopo aver superato tutte le difficoltà dei rischi su larga scala, viviamo nella precarietà.
Essere migranti significa dover vendere te stesso, corpo e anima per sopravvivere.
Essere un migrante è percepito come materia prima da governi, contrabbandieri e addirittura “attivisti” che si definiscono “salvatori”, ma senza nessuna empatia verso i fratelli e sorelle migranti. Significa capire cosa vuol dire non avere nulla e dare il massimo per sopravvivere nel mondo bianco.
Essere un migrante africano significa vivere in schiavitù moderna, ma anche trovare l’amore nella nostra sopravvivenza e celebrare la nostra capacità di recupero, la stessa capacità di recupero che i nostri antenati usavano per combattere l’uomo bianco nel nostro paese dopo anni di colonialismo.
Vi invito tutti a pensare al migrante che vive proprio in fondo alla vostra strada, per offrirgli un pasto caldo o un regalo; un’offerta che non va ad una lontana organizzazione di migranti, ma per un vero migrante.
A tutti i miei fratelli migranti: ovunque voi andiate, sappiate che non siete soli.
Konatè Mamadou
Tratto da Cotroneinforma n. 142