Perché combattiamo la stessa battaglia
Introduzione
Questo dossier si propone di mettere a fuoco i molti obiettivi comuni ai percorsi intrapresi dalla Campagna Stop TTIP e dal Movimento No Triv.
Entrambe le reti hanno avviato, in questi anni, un lavoro di controinformazione e dialogo con numerose realtà attive sul territorio nazionale, oltre che con migliaia di privati cittadini interessati a conoscere tematiche tenute oculatamente fuori dall’agenda mediatica e politica. Grazie alle competenze messe in campo e alla forza delle argomentazioni, è stato possibile bucare, nei rispettivi àmbiti, il muro di silenzio eretto dal governo italiano. Il referendum del 17 aprile rappresenta uno dei rari momenti, in questi anni, in cui la società civile ha fatto sentire in maniera organica la propria voce, evidenziando che le priorità di una fetta importante di Italia sono antitetiche rispetto a quelle selezionate dall’esecutivo. Ma la lotta del Movimento No Triv non si esaurisce con il momento referendario: è nata una rete capace di ritagliarsi uno spazio nel dibattito pubblico, promuovendo istanze che vanno al di là del 17 aprile.
Queste istanze albergano per la gran parte, se non completamente, anche nella Campagna Stop TTIP. Con questa sigla si definisce il Partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti, l’accordo di liberalizzazione economica che Stati Uniti e Unione europea negoziano dal 2013. Esso rappresenta una seria minaccia per i diritti civili, l’ambiente e i servizi pubblici nel suo tentativo di spianare la strada alle grandi imprese multinazionali, interessate ai rispettivi mercati. In prima fila, come si può immaginare, ci sono proprio quelle del petrolio e del gas.
1. Che cos’è il TTIP
Nel luglio del 2013, Stati Uniti e Commissione europea hanno ufficialmente avviato le trattative (riservate) per il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), un accordo di libero scambio che, oltre all’abbattimento di dazi e tariffe per fluidificare il flusso commerciale tra i due lati dell’Atlantico, si propone di armonizzare standard e regolamenti che ad oggi costituiscono le cosiddette “barriere non tariffarie”. Si tratta di normative che tutelano i consumatori, l’ambiente e i servizi dalle leggi che governano il libero mercato, tese in primo luogo a garantire il massimo profitto per gli investitori.
Se il TTIP dovesse andare in porto, l’Europa dovrebbe rivedere radicalmente il suo approccio alla regolamentazione, che si ispira al cosiddetto principio di precauzione, per adeguarsi al sistema statunitense. Esso prevede minori controlli sui prodotti e i processi di produzione, minori tutele per il lavoro e l’ambiente, un incremento di privatizzazioni e liberalizzazioni dei servizi. A fare pressioni per il raggiungimento di un accordo “ambizioso” sono le grandi lobby dell’industria energetica, farmaceutica, agroalimentare, delle telecomunicazioni, della chimica, della finanza, dell’automotive e di numerosi altri settori dell’economia. In ballo c’è un mercato potenziale di 800 milioni di consumatori, che potrebbe trasformarsi nella più grande area di libero scambio del mondo, pari al 45% del PIL globale.
Gli unici studi di impatto finanziati dalla Commissione europea hanno prodotto risultati risibili: ad esempio un aumento del PIL europeo di 0,5 punti percentuali al 2027. In cambio, i cittadini e le piccole e medie imprese dovrebbero accettare una riduzione degli standard e delle tutele che li esporrebbe alla concorrenza di un’ondata di prodotti basso costo provenienti dagli Stati Uniti, nonché ad una competizione feroce e insostenibile. Secondo studi indipendenti, il TTIP potrebbe provocare la perdita di 600 mila posti di lavoro in Europa entro i primi 12 anni. Oltre ad un calo del proprio potere d’acquisto, i cittadini europei e italiani vedrebbero diminuire il livello di sicurezza alimentare, la qualità dei servizi e dell’ambiente, nonché una contrazione dei diritti civili.
2. Più fossili, meno rinnovabili
L’impatto del TTIP sulle politiche ambientali ed energetiche, che interessano specificamente questa breve analisi, potrebbe essere devastante. Grazie al lavoro delle organizzazioni della società civile, dai tavoli negoziali sono filtrate le proposte della Commissione europea per un capitolo energia nel TTIP.
Ansiosa di diversificare gli approvvigionamenti a seguito della crisi ucraina, Bruxelles preme per aprire un canale transatlantico di importazione del petrolio e del gas naturale estratto dagli USA con il fracking.
Una simile decisione andrebbe in direzione opposta rispetto al percorso di decarbonizzazione dell’economia deciso a dicembre dalla Conferenza ONU sul clima di Parigi (COP 21). “Sfortuna” vuole che l’accordo non contenga misure vincolanti per i Paesi aderenti.
Cattive notizie anche per il settore delle rinnovabili: secondo uno studio della Commissione Trasporti, Ricerca e Industria (ITRE) del Parlamento europeo, pubblicato nel gennaio 2015, il commercio delle tecnologie potrebbe essere amplificato tramite la rimozione dei cosiddetti requisiti di contenuto locale (LCR). Si tratta di misure che impongono alle aziende di reperire beni o servizi (per una certa percentuale) da filiere territoriali. In questo modo, i governi tentano di frenare la tendenza delle grandi imprese a ricavare profitti senza generare posti di lavoro, impedendo o rallentando lo sviluppo di un’industria nazionale necessaria allo sviluppo sostenibile dell’energia pulita.
Con la firma di un trattato di libero scambio come il TTIP, tutte queste attenzioni per l’economia locale verrebbero meno, consentendo alle imprese estere di reperire manodopera e materiali in Paesi dove costi e diritti sono più bassi. L’industria europea delle rinnovabili sarebbe così esposta a rischi non trascurabili.
Tappeto rosso per le trivelle
Al contrario della società civile, le grandi compagnie petrolifere e del gas hanno potuto godere di un accesso privilegiato ai testi negoziali del TTIP. Lo dimostrano alcune e-mail viste dal Guardian, nelle quali funzionari europei chiedono «input concreti» da parte dei raffinatori di petrolio per redigere il capitolo dell’accordo sull’energia.
Vi sono tutte le intenzioni, da parte di Bruxelles, di ammorbidire regolamenti e standard per i processi di ricerca ed estrazione degli idrocarburi in Europa, nonché per il commercio di carburanti ottenuti con tecniche non convenzionali (fracking e sabbie bituminose) e ad alto impatto climatico.
Il punto di non ritorno
Tra gli obiettivi principali dei quesiti referendari, prima della controversa ordinanza emessa dalla Corte Costituzionale il 9 marzo 2016, spicca la volontà di restituire alle Regioni un ruolo attivo nel negoziato con il governo centrale tramite il Piano delle aree. Questo strumento di pianificazione condivisa delle attività estrattive avrebbe ridato centralità e ampliato lo spazio decisionale delle autorità locali.
Con il TTIP in vigore, potrebbe essere molto difficile, se non impossibile, negare alle compagnie un permesso per ragioni ambientali o di sicurezza. Sarebbe altrettanto improbabile fissare impunemente una data di scadenza per i titoli abilitativi entro le 12 miglia marine (ora vincolati alla generica dicitura «per l’intera vita utile del giacimento»), così come richiesto dal quesito che ha reso possibile il referendum.
La ragione si chiama ISDS (Investor State Dispute Settlement), sigla che identifica una clausola contenuta in migliaia di accordi di libero scambio. Grazie all’ISDS, le imprese estere possono citare in giudizio i governi che emanano provvedimenti potenzialmente in grado di ridurre i loro profitti. I processi si tengono presso tribunali sovranazionali, a porte chiuse e senza possibilità di ricorso in appello. In questi tribunali, lo Stato può solo difendersi e mai giocare la parte dell’accusa. Tre avvocati privati decidono l’eventuale risarcimento che dovrà sborsare per aver violato il diritto dell’investitore estero ad un “trattamento giusto ed equo”. Questi avvocati, esperti in diritto commerciale e degli investimenti, aderiscono a una ristretta lobby di “arbitri” criticata per i lampanti conflitti di interessi con le stesse imprese che ne chiedono l’intervento.
Inutile dire che, nella maggior parte dei casi, lo Stato perde. Le sanzioni oscillano da qualche milione di euro alle decine di miliardi. Cifre che mettono in serio pericolo la capacità di legiferare dei governi. Per paura di una condanna, essi potrebbero decidere di congelare o cestinare un progetto di legge nato per tutelare l’interesse pubblico, la salute dei cittadini o la qualità dell’ambiente. Come si vede, è sufficiente un qualunque pretesto per intentare, con buone probabilità di successo, una causa arbitrale nei confronti di uno Stato.
In Europa, la vasta opposizione pubblica a questo sistema di risoluzione delle controversie, ritenuto antidemocratico e ad alto rischio per l’enorme potere che con- ferisce ai privati, ha costretto la Commissione europea a proporre delle una riforma dell’ISDS. Essa introduce un sistema di appello e una lista di “giudici” pubblica, trasformando l’arbitrato in una sorta di Tribunale internazionale sugli investimenti (Investment Court System – ICS).
Tuttavia, queste modifiche, ancora non condivise dagli Stati Uniti, conservano i privilegi di cui godevano anche prima gli investitori esteri: un sistema a senso unico (solo a loro è concesso di promuovere le cause), la possibilità di aggirare le corti nazionali ed evitare perfino la Corte di Giustizia europea. È il peccato originale dell’arbitrato internazionale, che lo rende un sistema profondamente iniquo. I “giudici”, selezionati da un pool di esperti di diritto degli investimenti, potrebbero essere gli stessi che fino ad oggi si sono chiamati “arbitri”. E continueranno ad avere un tornaconto nel deliberare a favore delle imprese, in quanto, così facendo, le incentivano a promuovere sempre nuovi ricorsi.
Il TTIP è per sempre
Alcuni governi hanno deciso di rescindere gli accordi sul commercio e gli investimenti, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, bersagliati dalle richieste di risarcimento delle aziende occidentali. Ma non ci si libera da un giorno all’altro di questi patti.
L’Indonesia, ad esempio, ha comunicato la cessazione del suo accordo con l’Olanda nel marzo 2014. La decisione è entrata in vigore il 1 luglio 2015, ma gli investimenti olandesi saranno coperti da ISDS fino al 2030. Lo prevede il trattato.
Stesso discorso per il Sudafrica, intenzionato a tagliare i ponti con la Germania. Nell’ottobre 2013 ha sciolto il patto bilaterale, una scelta divenuta effettiva solo un anno più tardi, il 22 ottobre 2014. Ma per altri 20 anni le aziende tedesche potranno aprire procedure arbitrali nei confronti del governo.
Le oltre 300 organizzazioni che fanno parte della Campagna Stop TTIP Italia stanno cercando di fermare un accordo che, con queste premesse, rischia di avere conseguenze nefaste sul nostro sistema sociale a tutti i livelli.
La possibilità di utilizzare corti arbitrali per risolvere le dispute tra investitori e Stati, produce un trasferimento di competenza da un sistema giudiziario e legislativo nazionale a soggetti privati nominati in maniera non trasparente.
Le implicazioni sono enormi, poiché il diritto a regolamentare degli Stati viene minato alla base. I governi, infatti, potranno rendere più stringenti le proprie legislazioni solo se risarciranno gli investitori. Il sistema arbitrale internazionale di risoluzione delle dispute crea così, di fatto, un sussidio pubblico per pochi attori privati transnazionali.
Tratto da: stop-ttip-italia.net