Sei Regioni fanno ricorso alla Consulta per riabilitare altri due quesiti
Non bastano le modifiche allo Sblocca Italia introdotte dalla legge di Stabilità: fallito il tentativo di Palazzo Chigi per aggirare il referendum No Triv.
Le modifiche introdotte dalla legge di stabilità non fermano il referendum No Triv. Proprio ieri, infatti, la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla materia, con un parere che rende inutile parte dei nuovi provvedimenti, entrati in vigore il 1 gennaio.
Fallito, dunque, il tentativo promosso da Palazzo Chigi per evitare una consultazione che possa dare una spallata alla lobby delle trivellazioni in Adriatico. Se la legge di stabilità avesse davvero soddisfatto tutti i quesiti No Triv, il pronunciamento dell’Ufficio centrale per il referendum avrebbe archiviato il voto. Ma la notizia di ieri ci dice che le modifiche governative erano solo di facciata.
Nonostante ciò, 5 quesiti su 6 sono stati ritenuti soddisfatti, ma su due di essi (che riguardano la durata di permessi e concessioni e il Piano delle aree) i No Triv ritengono che la Cassazione abbia sbagliato a decidere. Per riabilitarli, propongono alle Regioni promotrici del referendum di sollevare un conflitto di attribuzione contro il Parlamento davanti alla Corte Costituzionale. Sei Regioni hanno già acconsentito: Basilicata, Sardegna, Veneto, Liguria, Puglia e Campania. In settimana verrà depositato il ricorso, sperando di coinvolgere anche i quattro Consigli regionali che hanno richiesto la consultazione ma non hanno ancora aderito alla sollevazione del conflitto di attribuzione: si tratta di Calabria, Marche, Abruzzo e Molise.
Entro mercoledì 13, intanto, è atteso il responso della Consulta sul parere della Cassazione, la cui decisione verrà pubblicata entro il 10 febbraio.
Cosa ha detto la Cassazione sul referendum No Triv
In merito al quesito sulle attività petrolifere entro le 12 miglia marine, la Corte ha stabilito che l’emendamento introdotto dal governo non soddisfa la richiesta dei movimenti. Come spiegano i No Triv in un comunicato stampa, «esso, in altri termini, la elude, in quanto la modifica voluta dal Governo, pur facendo salvi i permessi e le concessioni già rilasciati, ne allunga arbitrariamente la durata. In questo modo, i permessi di ricerca non avrebbero più scadenza e resterebbero “congelati” in attesa di tempi migliori. Per questa ragione, il Coordinamento nazionale No Triv sta per indirizzare al Ministero dello sviluppo economico una diffida, affinché chiuda definitivamente tutti i procedimenti attualmente in corso relativi a progetti petroliferi ricadenti entro le 12 miglia marine».
Tre quesiti risultano invece soddisfatti, secondo il parere della Cassazione, dalle nuove disposizioni governative. Modificando le norme sulla strategicità, indifferibilità ed urgenza delle attività petrolifere, il governo ha infatti acconsentito a chiudere la corsia preferenziale per le compagnie. Queste norme stabilivano il dimezzamento dei termini processuali nei ricorsi, riducevano l’influenza delle Regioni all’interno della Conferenza dei Servizi e inserivano il vincolo preordinato all’esproprio già nella fase di ricerca. Decade anche la possibilità del governo di sostituirsi alle Regioni quando non vi è accordo sui progetti petroliferi e sulle relative infrastrutture. Dal 1 gennaio non sarà più possibile evitare la trattativa.
È incerta invece la sorte di altri due quesiti referendari: «Rispetto ad essi – spiega il movimento No Triv – c’è ancora spazio per promuovere un ricorso davanti alla Corte costituzionale». Per quanto la Cassazione abbia dichiarato che siano decadute le richieste sul “Piano delle aree” e la durata dei permessi e delle concessioni, secondo i proponenti questa decisione è frutto di una «errata interpretazione delle norme. La Cassazione, infatti, non spiega perché mai la proroga della durata dei permessi e delle concessioni costituisca un problema per la ricerca e le estrazioni in mare (e che quindi si debba andare a referendum), mentre non costituisce un problema per la ricerca e le estrazioni in terraferma (e che quindi non si debba andare a referendum). La decisione è contraddittoria».
Un conflitto di attribuzione per riabilitare due quesiti
Per evitare lo scempio di zone incontaminate o, viceversa, densamente antropizzate, il Piano delle aree sarebbe servito a stabilire quali zone aprire ai petrolieri e quali no. Ma il sistema, secondo i No Triv, è imperfetto: lo Sblocca Italia, infatti metteva questo strumento (prima che fosse eliminato con la legge di stabilità) nelle mani del governo. Il ruolo delle Regioni sarebbe stato ininfluente. Ecco perché «la proposta referendaria mirava a cancellare la partecipazione fittizia degli enti locali alla elaborazione del piano e a vietare il rilascio di nuovi permessi e concessioni fino a quando non fosse stato adottato».
Sopprimendo la norma che prevedeva il Piano delle aree, l’esecutivo è finora riuscito a evitare che Regioni e Comuni, nonché i cittadini, possano interferire con le sue scelte dei luoghi da perforare.
«Pertanto, coerenza vuole che tutte le Regioni promotrici del referendum sollevino urgentemente un conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento davanti alla Corte Costituzionale – spiega Enzo di Salvatore, costituzionalista e coordinatore del movimento No Triv – Solo in questo modo, ove la Corte Costituzionale dovesse riconoscere l’illegittimità della modifica della durata dei titoli e dell’abrogazione del Piano delle Aree, verrebbero messi in sicurezza gli obiettivi del referendum, che si potrà celebrare su tre quesiti: il mare, la durata dei permessi e delle concessioni e il Piano delle aree».
Tratto da: rinnovabili.it