USCIRE DALL’ECONOMIA DEL PROFITTO, COSTRUIRE LA SOCIETA’ DELLA CURA

Sono almeno cinque i grandi insegnamenti che si possono trarre dall’arrivo dell’epidemia da Covid19, che in brevissimo tempo si è diffusa su tutto il pianeta, costringendo quasi metà della popolazione all’autoreclusione per tempi più o meno lunghi.

Il primo riguarda la constatazione di come una società interamente fondata sul mercato si sia rivelata incapace di garantire la protezione dei suoi membri. Al contrario, i drastici tagli degli ultimi decenni di politiche liberiste e di austerità hanno drammaticamente evidenziato i loro effetti: il sistema sanitario, il sistema scolastico e la rete dei trasporti pubblici sono andati repentinamente al collasso, lasciando le fasce più fragili della popolazione prive di diritti e di reti di supporto.

Il secondo riguarda la natura di questa epidemia. Nonostante la narrazione dominante lo descriva come un evento esogeno, precipitato da chissà dove sulle nostre vite -da qui l’uso della retorica del nemico invisibile e del linguaggio guerresco- il virus è un evento assolutamente endogeno a questo modello socio-economico e, nella sua virulenza, dimostra la rottura degli equilibri eco-sistemici provocata da decenni di relazione fra attività economica e natura basata sulla predazione, sull’estrattivismo, sulla negazione di ogni interdipendenza. Di fatto, il virus è una delle dimostrazioni della crisi climatica e ambientale in corso e ne mette in evidenza le drammatiche conseguenze.

Il terzo riguarda la relazione tra l’attività di produzione economica e l’attività di riproduzione sociale. Una società che ha sempre privilegiato la prima, misconoscendo il valore della seconda, storicamente affidata alle donne e mai retribuita, si è dovuta arrendere all’evidenza: senza cura delle persone non è possibile alcuna attività economica e i lavoratori socialmente meno considerati si sono rivelati essenziali e decisivi proprio dentro le fasi di lockdown, dagli operatori della sanità a quelli della scuola, dai ryder ai lavoratori dei trasporti, fino alle relazioni sociali messe in campo autonomamente negli ambiti familiari, di vicinato e territoriali.

Il quarto riguarda la centralità dei territori. Il virus ha potuto diffondersi con tale velocità sul pianeta perché ha utilizzato i binari di un modello globalizzato che fonda il proprio valore economico unicamente sulla velocità di spostamento di merci, capitali e persone (quelle legate alla produzione di valore, non quelle costrette alla migrazione): l’epidemia si è infatti diffusa attraverso i corpi dei manager e dei tecnici specializzati, cosi come quelli dei lavoratori dei trasporti e della logistica, e dei turisti. Una iper-connessione dei sistemi produttivi, finanziari e sociali, che da decenni attraversa in maniera predatoria i territori estraendone valore è andata in tilt, scoprendo improvvisamente come il mito della velocità abbia come contraltare il blocco totale di produzione, commercio, infrastrutture e relazioni.

Il quinto riguarda l’impalcatura ideologica costruita attorno all’economia. L’epidemia ha rotto qualsiasi narrazione artificialmente costruita sul tema del debito e dei vincoli finanziari, che, da Maastricht in avanti, come dogmi religiosi hanno governato la società. Se per curare le persone sono, infatti, stati sospesi il patto di stabilità, il pareggio di bilancio e gli algoritmi del deficit, non ci vuole Aristotele per dedurre come quei vincoli fossero contro la vita e la cura delle persone.

Di fronte a queste cinque faglie aperte dall’epidemia nella narrazione liberista si apre lo scontro sociale relativo al come uscirne e in quale direzione.
Non vi è dubbio di quale sia stata la scelta da parte dei ceti ricchi, del mondo delle imprese, dei grandi interessi finanziari e dei governi al loro servizio: richiudere nel più breve tempo possibile quelle faglie dietro lo slogan del rilancio dell’economia, accaparrandosi tutti i fondi pubblici messi a disposizione e ridisegnando la società dentro un modello di liberismo autoritario.
Non vi è parimenti alcun dubbio su quale debba essere la strada da intraprendere per immaginare un futuro diverso: far diventare fratture quelle faglie e affrontare, una volta per tutte, tanto la crisi climatica e ambientale quanto l’enorme diseguaglianza sociale che attraversano l’intero pianeta.
È esattamente quanto hanno provato a mettere in campo, già durante il primo lockdown, numerose reti associative e di movimento, producendo analisi e proposte, lotte e pratiche di mutualismo, fino a costruire una cornice valoriale comune dentro il Manifesto “Uscire dall’economia del profitto, costruire la società della cura”, al quale hanno aderito ad oggi oltre 200 realtà sociali.

Costruire la società della cura significa affrontare ciascuno dei cinque insegnamenti sopra descritti, sovvertendo la logica utilizzata sinora dalla narrazione dominante, per aprire un conflitto trasformativo della società.
Significa concretamente mettere la cura -che vuol dire cura di sé, dell’altro, del vivente, del pianeta e delle future generazioni- al centro di tutte le scelte di politica economica e sociale, assumendo la lettura femminile e femminista della società come indicazione di percorso.

Significa non separare più la produzione dalla società, favorendo la prima -il rilancio dell’economia- a discapito della seconda, bensì rifondare radicalmente i concetti di lavoro e di reddito.
Serve un reddito di base incondizionato per diversi motivi. Il primo è la necessaria redistribuzione di una ricchezza sociale che oggi è appannaggio dei pochi che detengono tutto e mettono a valore l’intera esistenza di tutti gli altri. Il secondo è che va interrotto il ricatto del reddito collegato al lavoro per garantire i diritti delle persone e per poter radicalmente trasformare la produzione. Il terzo è che, se consideriamo l’attività di ciascuna persona come il contributo individuale alla cura collettiva, il reddito garantito ne costituisce il riconoscimento. E serve un lavoro che sia svolto con tutti i diritti di dignità, senza precarietà, con una drastica riduzione dell’orario e con la socializzazione del lavoro necessario.

Se l’obiettivo è la cura collettiva, occorre che sia l’ecologia, ovvero l’interdipendenza tra le attività umane e la natura, a guidare le scelte in merito all’agricoltura e alle filiere del cibo, alla tutela e manutenzione del territorio, alle opzioni energetiche, alla tutela dell’acqua, al ciclo dei rifiuti, alla mobilità. Tutti beni da qualificare come comuni e da consegnare alla gestione partecipativa delle comunità territoriali, associate e federate fra loro.
Così come vanno sottratti al mercato i servizi pubblici fondamentali, dall’istruzione, formazione e ricerca alla sanità, dalla casa alla sicurezza sociale, fino alle infrastrutture materiali e immateriali senza le quali ogni altra produzione non sarebbe possibile.

E serve una finanza pubblica e sociale al servizio dei diritti e della vita, che parta dalla radicale rimessa in discussione della trappola del debito e dei vincoli finanziari, per mettere in campo la progressiva socializzazione del sistema bancario e finanziario, il controllo dei movimenti di capitali, la messa a disposizione dei fondi di Cassa Depositi e Prestiti (265 miliardi) per la conversione ecologica, sociale e culturale della società.

Questa è la posta in palio dentro il bivio che ci ha posto di fronte la pandemia.
Ancora una volta la scelta è tra la Borsa e la vita.
Si tratta semplicemente di scegliere la vita.
Tutti assieme, la vita.

Marco Bersani – Attac Italia

 

Tratto da: Cotroneinforma n. 141/2020

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