(RI)PARTIAMO DALLA CENTRALITÀ DEI TERRITORI

Quello calabrese è storicamente un territorio “vocato” alla devastazione e al saccheggio ambientale: dalle discariche ai piccoli e grandi impianti della morte (turbogas, inceneritori, biomasse, ecc.), tutti i padroni della “monnezza” e della cosiddetta green economy hanno fatto e continuano a fare cassa sulla salute dei cittadini colonizzando senza scrupoli il territorio ed assalendo i beni della collettività. Questa aggressione è però immanente al modo di produzione capitalistico e non rappresenta quindi una novità. La fase di crisi sistemica cui versa il modello capitalistico porta ad un sistematico assalto ai diritti e alle risorse collettive con lo scopo di aprire nuovi terreni di valorizzazione del capitale in un vero e proprio processo di “accumulazione per espropriazione”. È da questo assunto che dobbiamo partire per provare a dare una risposta alle cosiddette emergenze territoriali (rifiuti, acqua, incendi, balneazione, grandi opere, ecc.), a partire da quelli che sono stati gli interventi della Giunta Oliverio e del Governo Renzi-Gentiloni. La filosofia che ha guidato gli interventi legislativi regionali ha posto al centro gli interessi di poche grandi lobby affaristico-criminali a discapito delle comunità locali. Così, ad esempio, l’intervento nel settore idrico, con l’individuazione dell’ATO unico regionale, ha spianato la strada al soggetto unico regionale che gestirà il Servizio Idrico Integrato, in barba al decentramento e all’autodeterminazione dal basso delle comunità locali. Per fare questo è bastato passare dall’unitarietà del servizio all’unicità del servizio: “piccoli” escamotage linguistici del Governo Renzi! Lo svolgimento delle operazioni di voto per la prima individuazione dei Comuni che andranno a costituire l’assemblea dell’Autorità Idrica Calabrese (AIC) è previsto per domenica 08/10/2017. Questa data, precedentemente fissata per il 17/09/2017, sarà un ulteriore banco di prova per la Regione che ad oggi registra una scarsa adesione dei comuni alla nuova AIC. Con questo meccanismo diventerà molto più semplice consegnare alle grandi multiutility la possibilità di accaparrarsi un business molto importante che, tra i tanti vantaggi, ha anche quello di non prevedere concorrenza. Nel frattempo però il carrozzone Sorical stenta a morire e continua la sua folle politica di riduzione della portata idrica per morosità, riducendo alla sete interi quartieri e tanti comuni, e lasciando i cittadini nell’impossibilità di poter svolgere le regolari funzioni igienico-sanitarie necessarie durante tutto l’arco della giornata. Di fronte a tutto ciò, l’atteggiamento delle Amministrazioni locali è stato e continua ad essere di complicità o, nella migliore delle ipotesi, di impotenza. Anche la situazione della depurazione si può annoverare tra i mali ambientali cronici della Calabria e, senza voler riprendere vecchi elementi di criticità (soprattutto relativi al tratto costiero lametino e del medio Tirreno), basta far riferimento a quanto è stato denunciato recentemente dall’UE. Proprio durante la trascorsa estate la Commissione Europea ha deciso di inviare all’Italia un parere motivato – il secondo stadio della procedura di infrazione – perché non ha provveduto ad adeguare i sistemi di raccolta e trattamento delle acqua reflue per i centri urbani con oltre duemila abitanti. Secondo la Commissione, sono ben 129 gli agglomerati calabresi fuori norma. Sul fronte della gestione dei rifiuti il quadro non muta di molto. I recenti scioperi dei lavoratori della Daneco, società che gestisce i rifiuti negli impianti di Lamezia, Alli e Pianopoli, segnano il collasso di un sistema regionale dei rifiuti che da una parte dichiara, attraverso il nuovo Piano Regionale da poco approvato, di volere “discariche zero” ma dall’altra non ha la più pallida idea di dove far conferire i rifiuti dopo la sostanziale chiusura di Pianopoli. Che la Regione sia in difficoltà lo dimostra la recente disposizione che proroga per ulteriori 60 giorni la sospensione del conferimento dei rifiuti nella discarica di Celico in provincia di Cosenza. La misura è stata adottata per far fronte alla situazione di grave disagio lamentata dalla popolazione che già da tempo si è autorganizzata con un combattivo comitato di lotta. Nonostante questa situazione al limite del collasso la Regione Calabria firma con una certa frequenza accordi di transazione che permettono alle imprese di andare avanti in cambio però di un servizio parziale e a singhiozzo e senza tutele per i lavoratori e garanzie per i cittadini. Inoltre, per i cosiddetti “comuni virtuosi” della raccolta differenziata, arriverà nel 2018 una super stangata approvata dalla Regione Calabria che prevede l’aumento di circa 60€ a tonnellata di rifiuti smaltiti, passando dagli attuali 107€ ai futuri 165€ per quei comuni che superano il 65% di raccolta differenziata (pochissimi in Calabria), cifra molto simile alle 169€/tonnellata che dovranno invece versare i comuni meno virtuosi. È chiaro che questi aumenti vertiginosi graveranno sulle tasche dei cittadini calabresi.
Come dire, oltre al danno la beffa! Più differenzio e più pago ed a pagare saranno come al solito i cittadini, che in cambio continueranno a trovarsi l’immondizia sotto casa. Così facendo si fa pagare doppiamente la crisi del “sistema rifiuti” ai cittadini, effettuando aumenti in bolletta e drenando contestualmente soldi pubblici ai signori della monnezza che puntualmente dimostrano di avere altri interessi rispetto a quelli delle comunità locali. La situazione negli altri impianti calabresi non differisce di molto da quella della provincia di Catanzaro e Cosenza. Il meccanismo è sempre lo stesso: il privato che depreda e devasta un territorio con profitti da capogiro e servizi pessimi ai quali deve far poi fronte la Regione con continui versamenti a pioggia di soldi pubblici e con devastazioni irreversibili dal punto di vista ambientale e della salute pubblica. Basta pensare alle vicende legate alle bonifiche dei siti contaminati di Crotone, di Cassano, del fiume Oliva e di tante altre centinaia di aree (censite e non) che in un passato recente sono state utilizzate come deposito di sostanze tossiche altamente nocive. In alcuni casi addirittura le stesse sostanze sono state utilizzate come materiale da costruzione per strutture pubbliche (scuole ed ospedali), come nel caso crotonese, dove la Pertusola Sud con questo meccanismo criminoso si è liberata di circa 400 mila tonnellate di scarti provenienti dal processo produttivo dello stabilimento metallurgico, le famose “scorie di cubilot”, contenenti arsenico, zinco, piombo, indio, germanio e mercurio, tutti metalli ritenuti altamente cancerogeni. I nessi tra questioni ambientali e diritto alla salute ed alle cure sono del tutto evidenti in una regione in cui, tra l’altro, non esiste uno studio sistematico tra lo sviluppo di alcune malattie e i determinanti socio-ambientali. Un sistema sanitario, quello calabrese, tra i più costosi ed inefficienti d’Europa perché, anche in questo caso, depredato da interessi privati. Migliaia di morti evitabili si sono verificate in questa situazione e molte altre arriveranno finché questa logica continuerà a dominare. I cittadini calabresi hanno minore aspettativa di vita rispetto al resta d’Italia e d’Europa perché sono penalizzati da situazioni ambientali e sociali di grave rischio, una povertà diffusa e una sanità data in pasto al malaffare e alla clientela corporativa. La salute e la sanità sono sottoposte a ripetuti attacchi e a tagli di spesa pubblica che producono e favoriscono diseguaglianze nella tutela e nell’accesso alle cure. Contemporaneamente viene incentivato l’ingresso in sanità di gruppi privati, con un obiettivo chiaro: fare profitto sulla nostra salute. Come in tutta Europa, anche in Italia assistiamo a un sistematico definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale: piccoli ospedali e servizi territoriali vengono chiusi o depotenziati. La moltiplicazione di visite ed esami, favorita dal pagamento a prestazione, produce liste d’attesa che rendono difficile ottenere in tempi opportuni le cure realmente utili e non garantiscono l’accesso a migliaia di persone. Inoltre, le condizioni di lavoro di chi opera in ambito sanitario peggiorano progressivamente. L’attuale proliferazione di coperture sanitarie assicurative private o mutualistiche, finanche inserite nei contratti collettivi di lavoro grazie alla complicità dei sindacati confederali, indebolisce ulteriormente il sistema, creando una situazione a due velocità: un servizio sanitario pubblico “al ribasso” per i meno abbienti (o per chi non ha una sufficiente tutela contrattuale) e una sanità privatizzata differenziata per chi se la può pagare (o a seconda dei diversi benefit previsti dal proprio ruolo lavorativo). Sul fronte regionale, il commissario ad acta alla sanità, Massimo Scura, emana decreti su decreti che, nel finto tentativo di riorganizzazione la rete assistenziale, produce soltanto nuovi ed ulteriori tagli ai servizi sanitari, in linea con la politica imposta dal Governo alla sanità pubblica calabrese. Quello che viene favorito è un modello di sanità privata e questo nonostante le evidenti carenze del sistema sanitario regionale che, come evidenziato da un recente studio condotto dall’università svedese di Göteborg sulla qualità della sanità in Europa, colloca la Calabria all’ultimo posto tra le 172 regioni europee. Così come i dati Cnel sulla qualità dei servizi delle pubbliche amministrazioni hanno confermato che il sistema sanitario calabrese è il peggiore che ci sia in Europa. A chi conviene privatizzare e commercializzare la salute è presto detto. Sicuramente all’industria farmaceutica e ai produttori di apparecchiature sanitarie, ai grandi gruppi di cliniche e case di riposo private (che in Calabria sono oltre 450) e alle compagnie assicurative, che fanno profitti con i nostri soldi (ticket, compartecipazione alla spesa, rette, premi). Per ritornare ai determinanti socio-sanitari, uno studio recentemente pubblicato in Francia dall’Agenzia Nazionale di Salute Pubblica mette in risalto un dato sconvolgente: quindici mila casi di cancro ogni anno sono attribuibili alla sola classe sociale del malato. Ancora una volta viene evidenziato che il problema non si trova nelle cattive abitudini alimentari dei cittadini ma altrove ossia nei determinanti socio-sanitari (che sono tutti quei fattori che stabiliscono l’incidenza di una determinata malattia su un individuo) che influenzano in maniera decisiva l’emergere di patologie gravi e mortali. Prima, tra questi, troviamo il contesto politico e socio-economico generale, ossia la società capitalista in cui viviamo, poi i determinanti strutturali del singolo individuo (classe sociale, razza, genere etc.), ed infine l’accesso alle risorse e gli stili di vita individuali. È ovvio quindi che i singoli comportamenti sono fondamentali ma sono fortemente influenzati dalla collocazione sociale delle persone. Junk food, cibi troppo salati o dolci, stile di vita irregolare non sono solo scelte dettate dai gusti ma dalla disponibilità di soldi e di tempo, le due cose che mancano a chi si trova in basso alla piramide sociale.
Il recente studio francese evidenzia inoltre che le classi popolari sono maggiormente vittima in particolare di cancro alle vie respiratorie e digestive: inquinamento atmosferico, consumo di tabacco e malattie professionali sono direttamente legate a questa “sovra-rappresentazione” delle popolazioni precarie tra i malati. C’è poi la questione lavoro: usurante quando lo si trova, stressante quando non lo si trova, tutte situazioni tipiche di chi vive una situazione di precarietà.
Anche il luogo di residenza conta molto, vivere in prossimità di strade trafficate o luoghi inquinati sono altrettanti fattori di rischio che possono avere effetti devastanti, un recente studio di Lancet, che ha avuto una larga eco sulla stampa italiana e internazionale, ha messo in evidenza che vivere vicino alle strade principali aumenta significativamente il rischio di malattie neurologiche. E non sono certo i ricchi a vivere costantemente esposti a smog e clacson. Inoltre, più i soldi mancano e meno si fanno visite mediche, e anche qualora si facciano spesso non ci sono le risorse per curarsi. In Italia, secondo una ricerca del Censis, nel 2016 sono 11 milioni le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa delle difficoltà economiche, 2 milioni in più di quanti se ne contavano quattro anni prima.
Quest’ultimo passaggio pone inevitabilmente forti interrogativi sulle politiche abitative e sul modello di mobilità che la Regione ed i poteri centrali hanno sviluppato negli ultimi trent’anni. Da un punto di vista infrastrutturale, al di là delle comunicazioni altisonanti che hanno seguito l’approvazione del Piano Regionale dei Trasporti e l’inaugurazione della “nuova” A2-Autostrada del Mediterraneo, l’intero entroterra calabrese versa in una condizione di completo isolamento, mancando o essendo insufficienti le infrastrutture ed i mezzi di trasporto pubblico in grado di garantire l’interconnessione tra periferie e centro.
Anche questa, evidentemente, è una precisa scelta politica che va nella direzione di spostare l’asse degli interventi sul privato con ingenti finanziamenti; sopprimere e depotenziare i servizi di trasporto pubblico; eliminare i finanziamenti ai comuni per il trasporto locale; o, ancora, promettere la costruzione di nuovi ed inutili aeroporti (come quello di Scalea e Cassano) e l’incremento dei posti barca nei porti perché – secondo l’assessore Russo – bisogna dare delle risposte ad “un’emergenza tutta calabrese”.
Intanto continua a crescere tra la popolazione il disagio – questo sì tutto calabrese – legato all’impossibilità di vedersi garantito il diritto alla mobilità che, inevitabilmente ed in forma indiretta, colpisce anche il diritto allo studio, alle cure e alla salute, allo svago ed al tempo libero, soprattutto per quelle categorie che non possono permettersi un mezzo di trasporto individuale.
Anche i grandi interventi sul settore energetico procedono facendo leva sulla stessa logica predatoria di accaparramento (quasi sempre gratis) delle risorse naturali e sull’ulteriore surplus che fornisce lo Stato, con la logica dei certificati verdi e dei finanziamenti per chi “investe” in fonti cosiddette rinnovabili. E così proliferano sul territorio regionale richieste per impianti eolici, centrali a biomasse e pirogassificatori, passando però dalla logica dei grandi impianti a quella di tanti e diffusi mini-impianti più facili, evidentemente, da “gestire” e “occultare”.
Sicuramente un aiuto non di poco conto alle lobby del settore energetico e dei rifiuti lo ha fornito il Governo con il D. Lgs. n.104/2017 che limiterà ai cittadini la possibilità di intervenire su ben 90 categorie progettuali (dagli impianti estrattivi a quelli dei rifiuti, passando per una moltitudine di altre tipologie di opere). Un testo, quindi, che guarda con evidente fastidio alle mobilitazioni popolari delle comunità locali che puntualmente scendono in piazza e si barricano quando non gli viene riconosciuto il diritto di decidere autonomamente sul futuro dei propri territori.

CHE FARE?
Oggi sulle questioni legate alla difesa del territorio viviamo un certo arretramento nelle pratiche di mobilitazione e riappropriazione, con l’ambientalismo tradizionale in evidente stato di crisi perché divenuto parte integrante del sistema; tutto si è spostato sul piano della gestione “politicamente corretta” senza nessun tentativo di ribaltare i piani d’azione predeterminati dal potere.
Senza questo meccanismo di contropotere, a nostro avviso, non ha alcun senso lottare per la “sopravvivenza della Terra” perché la stessa “scienza ecologica” è, nei fatti, un’ideologia e come tale anch’essa al servizio del Capitale.
Per invertire questa tendenza occorre iniziare a mettere in discussione intanto il concetto stesso di proprietà; interrogarsi costantemente su “cosa, come, dove e per chi produrre”, anteporre al consumo il bisogno e contrastare tutte le forme di mercificazione della natura e degli esseri umani. Occorre – ancora una volta – mettere al centro il valore d’uso e anteporlo a quello di scambio! Tutto questo, chiaramente, in un’ottica di incompatibilità al Sistema, pena l’assorbimento in processi di normalizzazione dentro il modo di produzione capitalistico.
Ma come conciliare i “nostri desideri” con le condizioni reali ed oggettive dei territori? Come rendere virale la tensione alla modificazione del presente senza attendere un futuro messianico?
Questo è forse l’aspetto più complesso da affrontare soprattutto in una situazione che ha mutato forma rispetto anche a soli quindici anni fa quando i movimenti No Global, i Social Forum o la Rete del Sud Ribelle avevano ancora qualcosa da dire. È mutata la composizione sociale, i modi ed i tempi della comunicazione, i bisogni reali e quelli indotti, e soprattutto le forme del controllo sociale sui territori esercitate dagli apparati dello Stato, dalle multinazionali e dalle organizzazioni mafiose.
Se i territori (urbano, campagne, non antropizzato) sono i luoghi dove maggiormente si condensano e precipitano gli effetti nefasti del capitale e della sua crisi sistemica, è da essi allora che bisogna (ri)partire. Oggi non è un caso che una parte importante dello scontro di classe e del conflitto sociale si dispiega su questo fronte (Tav, Tap, Muos, Ponte, discariche, inceneritori, ecc.).
Ripartire dai territori quindi, per sostenere e promuovere processi che vedano protagoniste le comunità locali nella costruzione di mobilitazioni in difesa del territorio e della salute, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, per una nuova economia sociale territoriale che metta al centro dell’agire nuove forme autonome, autogestionarie e di democrazia diretta, che respinga il meccanismo – spesso autoassolvente – della delega e delle scorciatoie elettoralistiche. Questo significa in primis costruire collettivamente un’adeguata consapevolezza dell’attacco espropriatore in atto da parte del capitale e questo, a nostro avviso, può avvenire con la costruzioni di tanti “laboratori popolari sull’autogoverno” con quanti non vogliono limitarsi a rivendicare un “altro mondo” ma provano ad agirlo ora, nel quotidiano.
Per fare ciò non esistono scorciatoie e semplificazioni perché se è vero che la rappresentanza istituzionale non ci interessa, è altrettanto vero – lo ribadiamo – che il governo dei territori è un terreno di lotta e di forte conflittualità sociale, un terreno su cui agire una rottura intransigente con quanti invece intendono speculare sulle vite e sulla salute di chi vi vive. Questa rottura deve avvenire abbattendo il muro di silenzio che ci separa dalla “nostra gente” riempendo e svuotando, di volta in volta, la nostra “cassetta degli attrezzi” a seconda delle esigenze contestuali che le pratiche messe in campo richiedono.

25/09/2017
Gennaro Montuoro
Casarossa40 – Lamezia Terme
www.casarossa40.org

Tratto da: http://cotroneinforma.org/wp-content/uploads/2017/10/132.pdf

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