Esattamente tra un mese (l’articolo è apparso il 16 marzo n.d.r.), il prossimo 17 aprile, le cittadine e i cittadini italiani sono chiamati a esprimere il proprio parere per evitare che i permessi di trivellazione per la ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia nei mari italiani possano proseguire oltre la data di scadenza, per tutta la “durata della vita del giacimento”, come previsto dall’art. 38 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Sblocca Italia).
Questo è l’unico di sei quesiti, depositati da 10 regioni il 30 settembre 2015, accolto dalla Corte Costituzionale. Gli altri cinque quesiti sono stati superati da modifiche apportate dal Governo nell’ultima legge di stabilità. Un risultato che va nella direzione giusta, di cui però è bene evidenziare il carattere elusivo da parte del Governo stesso, che positivamente ha fatto sparire alcuni pilastri del provvedimento Sblocca Italia (come il principio di “strategicità, indifferibilità, urgenza, pubblica utilità”, la titolarità all’esproprio preventivo e anche la facoltà di assoggettare quote di territorio per le infrastrutture funzionali al ciclo produttivo degli idrocarburi al di fuori delle aree di concessione), ma nello stesso tempo parla di “sospensione” dei procedimenti in corso, con il chiaro obiettivo di evitare il pronunciamento dei cittadini e delle cittadine e consentirne l’inserimento in una successiva fase normativa pro-trivelle in base all’esito referendario.
D’altronde il Governo mostra di voler utilizzare tutte le armi per evitare il pronunciamento democratico su tematiche sensibili come quelle del modello energetico. Su tutte la decisione di celebrare il referendum la prima domenica utile per legge, con il chiaro obiettivo di sabotare la partecipazione, non considerando affatto lo spreco di risorse pubbliche che si potrebbero risparmiare ricorrendo all’election day in concomitanza con il voto delle amministrative (non meno di 350 milioni di euro).
La pressione esercitata dai comitati territoriali, che lottano contro le piattaforme a mare e in generale contro le opere che devastano e saccheggiano i territori, si è dimostrata comunque efficace costringendo la compagine governativa ad assumere un atteggiamento prudente e in alcuni casi anche a rivedere importanti decisioni, come nel caso dell’azzeramento per il permesso in Adriatico “Ombrina mare due” della Rockhopper, una delle più discusse e controverse concessioni a mare.
Lo strumento referendario costruito e promosso dal coordinamento nazionale No Triv con l’appoggio delle regioni non può che essere una parte della lotta di contrasto alle politiche energetiche messe in atto dal Governo. Singoli comitati territoriali alzano barricate ogni giorno per evitare la realizzazione di opere inutili e spesso nocive, partendo dalla decostruzione dei messaggi di propaganda delle classi dirigenti politiche ed economiche, creando una rete di relazioni tra soggetti che a vari livelli subiscono gli effetti negativi di scelte simili e bloccando anche fisicamente l’avanzamento delle opere dove necessario.
Attraverso questo processo, che nel suo libro Una rivoluzione ci salverà Naomi Klein definisce “Blockadia”, in tutto il mondo comitati territoriali lottano contro ogni forma di saccheggio delle risorse e dei diritti.
Il referendum non può che arrivare al culmine di un ciclo di partecipazione attiva e di auto-consapevolezza rispetto a determinate tematiche, tant’è che nel caso di vittoria dei SÌ l’abrogazione del rinnovo delle concessioni non risolverebbe sicuramente la questione del modello energetico necessario, però potrebbe inviare al governo un forte segnale rispetto alla scelleratezza e all’impopolarità di alcune scelte e, nel contempo, rappresentare un forte impulso per la costruzione nei territori di percorsi conflittuali in grado di contrastare opere tossiche e di proporre pezzi costituenti di un’alternativa basata su giustizia sociale ed ecologica.
Parole d’ordine che hanno caratterizzato le rivendicazioni di tante attiviste e tanti attivisti durante l’ultima conferenza sul clima di Parigi, COP21, e che, grazie alla pressione esercitata da un’opinione pubblica sempre più consapevole, delineano almeno in parte il quadro degli accordi assunti dai governanti di 155 paesi partecipanti, compiendo passi in avanti importanti rispetto alla crisi climatica in corso.
Tra questi vale la pena ricordare:
- Non è più messa in dubbio l’esistenza scientifica del cambiamento climatico, né il fatto che all’origine ci sia l’attività produttiva umana;
- Nessuno nega le conseguenze disastrose (lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento del livello del mare, l’espansione delle aree desertiche, la scarsità dell’acqua dolce, la diminuzione delle aree agricole, le più frequenti catastrofi meteorologiche e la destabilizzazione della vasta area dell’antartico occidentale il cui scioglimento potrebbe provocare l’innalzamento di 7 metri del livello del mare) che il cambiamento climatico produce e produrrà per centinaia di milioni di persone se il sistema energetico fossile non viene interrotto;
- I paesi del Sud del mondo hanno contribuito molto poco al cambiamento ma ne subiscono le conseguenze peggiori. L’esito dell’accordo riconosce questa realtà e recepisce il fatto che questi paesi riceveranno aiuti materiali se si impegneranno ad adottare modelli di sviluppo sostenibile in grado anche di combattere le povertà. I paesi ricchi dovranno farsi carico di donare 100 miliardi di dollari l’anno dal 2020 per aiutarli a ottenere questi risultati, non sufficienti, ma un importante inizio;
- Il più importante obiettivo assunto negli accordi di Parigi è stato riconoscere l’aumento limite pari a 1,5°C, al di sotto dei 2°C, rispetto all’era preindustriale per ridurre in modo significativo gli impatti e i rischi del cambiamento climatico.
Tutto ciò caratterizza il quadro teorico degli accordi. Ciò che deve preoccupare emerge quando si valuta la distanza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Infatti ciascuno dei paesi firmatari ha assunto impegni non vincolanti in relazione ai rispettivi programmi di riduzione delle emissioni (INCDs). Inoltre gli impegni presentati dai paesi firmatari porterebbero a un aumento non di 1,5°C, né di 2°C, ma di 3°C e più, con effetti semplicemente catastrofici: paesi e regioni sommerse dall’aumento del livello delle acque, con milioni di vittime e altrettanti migranti climatici costretti ad abbandonare le proprie terre.
Anche in questo caso il comportamento dei governanti è intriso di ambiguità: nulla si dice in merito ai metodi e alle tecnologie che intendono utilizzare per rispettare gli impegni dichiarati: molti hanno optato per metodi che compromettono il meno possibile le disastrose pratiche di sviluppo attuale, piuttosto che per effettivi metodi di riduzione delle emissioni: programmi di risparmio energetico, taglio delle produzioni nocive, conversione alle rinnovabili. Si preferisce puntare su tecnologie pericolose come le biomasse, la cattura e lo stoccaggio di carbonio (pratiche ancora in via sperimentale), la geo-ingegneria, il “solito” nucleare e ancora gli strumenti finanziari di commercio del carbonio (ETS, CDM, REDD+).
Nulla di sorprendente dato che l’accordo deve rispondere al criterio di compatibilità con il sistema capitalistico e con i suo caratteri dominanti: produttivismo, estrattivismo, crescita illimitata e ricerca del profitto.
Evidentemente però tra obiettivi dell’accordo sottoscritto e strumenti messi sul piatto per raggiungerli esiste una profonda contraddizione, di cui gli stessi firmatari, dopo essersi auto-celebrati per lo storico accordo, sono tenuti a rispondere.
Per rispettare il limite di 1,5°C in relazione al parametro di aumento della temperatura media globale e avere il 50% di probabilità che ciò si verifichi, all’interno di un quadro di equità fra nazioni ricche e povere, i paesi sviluppati devono iniziare a ridurre del 10% i gas serra prodotti ogni anno. Per capirne l’impatto si pensi che ad oggi riduzioni sopra l’1% annuo si sono verificate solo con le grandi recessioni economiche o altri sconvolgimenti radicali (negli Stati Uniti nel 1929 vi fu un calo annuo delle emissioni pari al 10%; nell’ex Unione Sovietica, dopo la sua caduta, vi fu un calo annuo delle emissioni pari al 5%).
A tale scopo almeno l’80% dei combustibili fossili in possesso delle multinazionali e dei paesi produttori deve restare inutilizzato nel sottosuolo. Per capire come ciò sia in contraddizione con le logiche di crescita e profitto del sistema capitalistico è sufficiente sapere che i giacimenti non ancora utilizzati entrano già negli attivi di bilancio dei loro proprietari e che il loro possesso ne condiziona direttamente la quotazione in borsa, oltre al fatto che essi rappresentano potenzialmente 1/5 del PIL mondiale.
Per raggiungere gli obiettivi di Parigi che i nostri governanti hanno sottoscritto è quindi necessario contrastare la logica alla base del modello economico dominante. È necessario immaginare e realizzare scenari futuri alternativi al sistema attraverso scelte a bassissimo profilo carbonico che siano eque per evitare ulteriori scompensi sociali a fasce già colpite dalla crisi e dalle ingiustizie del sistema, e che quindi colpiscano soprattutto gli sprechi e le inefficienze dei ricchi e dei processi che ne garantiscono ulteriore arricchimento (i 62 individui più ricchi guadagnano e i 500 più ricchi inquinano come metà popolazione mondiale).
Questo non significa impoverimento diffuso per tutti, anzi potrebbe essere l’occasione per riequilibrare disuguaglianze sociali ed economiche prodotte da questo modello: lavorare meno, lavorare meglio; un reddito di cittadinanza per sottrarsi al ricatto di qualsiasi lavoro, anche il più tossico (per l’uomo e per la natura) in cambio di un salario. E significa pensare e praticare nuove relazioni sociali in grado di creare una rete di sicurezza che garantisca accesso alla sanità, alla formazione, al cibo, alla casa, alla mobilità attraverso l’autorganizzazione e nuove pratiche di mutualismo conflittuale, alla cui base ci siano i bisogni materiali e immateriali delle comunità e la conoscenza, il controllo e la gestione sostenibile delle risorse disponibili.
Cambiare prospettiva e non ritenere che la risposta alla crisi sia contenuta nel paradigma della crescita, con le stesse logiche che hanno prodotto crisi sociale e crisi ecologica. La crisi climatica impone che siano sviluppate risposte in grado di tenere insieme bisogni sociali e sostenibilità ambientale, giustizia sociale e conversione ecologica delle produzioni.
Se inserito in questa prospettiva anche lo strumento referendario, come momento di partecipazione democratica diffusa e consapevole, in un contesto di deriva autoritaria e alienante da parte delle istituzioni, può rappresentare un passaggio importante e un pezzo di costruzione all’interno di un processo conflittuale più ampio e articolato.
Far emergere nella campagna referendaria in primo luogo la contraddizione tra obiettivi e strumenti dell’accordo della conferenza sul clima di Parigi (COP21) per costruire campagne, mobilitazioni e conflitto, legittimati dagli stessi obiettivi sottoscritti, consentirebbe di inquadrare la questione generale della transizione verso più efficienza e più rinnovabili tenendo nei loro siti carbone, petrolio e gas affinché non il clima ma il sistema cambi.
Simone Febbo
Tratto da: communianet.org