Introduzione
Il rinvenimento di un deposito di armi nel 1952 e la scoperta di un dolmen nel 1976 a Cotronei (KR) sono eventi di straordinario interesse per il paese e per la Calabria. I primi inevitabili interrogativi che si presentano e si pongono sono: chi le ha portate in Sila? Chi ce le ha lasciate? Chi ha costruito ed eretto il dolmen?
Nel cercare di rispondere a queste domande, utilizzo il toponimo “I briganti” che designa una ben determinata località di “Trepidò” (Cotronei), e mi avvalgo di Wikipedia, che mi fornisce le necessarie e importanti informazioni su “I briganti” e su notizie di storia antica che generalmente non si trovano sui libri scolastici. Mi servo pure dei toponimi “Scurciavoi” e “Timparieddu dei latri”, che si trovano a Trepidò, nel territorio della Sila, per studiarli e interpretarli.
Ritengo che questo approccio sia utile e indicativo, come ho potuto constatare con il toponimo “Trepidò”: translitterando il termine, di origine greca, nella lingua italiana, significa “tre colline vicine” (secondo lo storico Giovan Battista Maone [1]), e, individuate le tre colline nel 2011 [2], messe in relazione con la scoperta dei vasi greci (1976) [3], si ha la prova certa (l’archeologia non è un’opinione) che queste colline siano state il luogo della Trepidò antica, colonia di Crotone nel VI secolo a.C.
Il toponimo Trepidò, giunto a noi fino ai tempi moderni attraverso una trasmissione orale, partita 2500 anni fa, e questi ritrovamenti (le tre colline e la fossa di vasi greci), hanno messo in luce una realtà per molti anni nascosta e sconosciuta.
Questo esito mi ha spinto ad interpretare il significato dei toponimi “I briganti”, “Timparieddu dei latri”, “Scurciavoi”, tutti di origine latina e relativamente più recenti. Scoprirne l’origine può essere utile per svelare un periodo storico perso nel tempo proprio perché manca una documentazione scritta. Per raggiungere l’obiettivo, ho seguito un procedimento intuitivo e ragionato, che, partendo da fatti realmente accaduti e storicamente accertati, mi ha portato a conclusioni significative, accettabili, e, ritengo, condivisibili.
“I briganti”
I briganti [4] – in latino brigantes, dal celtico Brig (monte), il cui significato originale è quello di ‘abitanti dei monti’, montanari – erano la più importante delle antiche popolazioni del centro della Britannia. Ebbero come capitale Eburacum (oggi York) e come regina Cartimandua. Insieme al consorte Venuzio strinse alleanza con i Romani. Nominalmente indipendenti, Tacito dice che erano fedeli alleati romani e protetti dai legionari [5]. Nel 51 d.C. la regina consegnò ai romani il capo della resistenza britannica Carataco, che era scappato nel nord dell’isola dopo essere stato sconfitto da Scapula nel Galles, dando così prova di sincera fedeltà.
In seguito, Cartimandua prese una cotta per Vellocato, scudiero [6] di Venuzio, e, ripudiato il consorte, lo sposò elevandolo a rango di re.
Allora Venuzio, offeso, prese le armi contro Cartimandua. Le truppe romane intervennero in sua difesa e Venuzio fu sconfitto (52-57 d.C.).
Ma nel 69 tentò un nuovo attacco. I romani intervennero nuovamente, mettendo in salvo la regina e Vellocato, ma non riuscirono a fermare Venuzio che si impossessò del trono. Da questo momento, la regina e Vellocato scompaiono dalle fonti (n.d.a. questo dovrebbe significare che la loro presenza ad Eburacum e in Britannia non è stata più segnalata); quest’ultima informazione dà valore e credibilità alle ricostruzioni che ora espongo.
Deve essere stato in questa circostanza che i romani, dopo aver salvato la regina e Vellocato, misero in salvo la popolazione, funzionari, collaboratori, parenti e familiari a loro fedeli, per sottrarli alla vendetta ed alle ritorsioni di Venuzio. I romani erano implacabili e vendicativi con i nemici, ma leali e generosi con gli alleati, che difendevano in caso di aiuto e di bisogno. Questa deduzione non è strampalata, vista l’analogia con la situazione attuale a Kabul, quando le diplomazie occidentali, dopo la caduta in mano ai talebani, si siano adoperate a mettere in salvo la popolazione, i funzionari, parenti e amici dando loro asilo in Europa e in America.
A questo punto apro una partentesi per inserire una ricostruzione personale, in libertà dei fatti, ma verosimile e plausibile.
I Brigantes, dopo aver lasciato la Britannia e sbarcati in Gallia, dovettero essere stati condotti in Calabria via mare, essendo tale scelta più sicura e più rapida di quella via terra (più lunga, più esosa e più esposta a rischi e ad insidie). In Calabria, dovettero approdare a Capo Colonna, porto da cui Annibale era partito per far ritorno a Cartagine. A Capo Colonna dovettero visitare il tempio di Hera Lacinia, uno dei più importanti santuari della Magna Grecia dell’età arcaica, che a quei tempi doveva manifestare ancora la sua maestosità. Devono essere rimasti folgorati e impressionati dalla bellezza delle colonne e dalla grandezza e magnificenza del monumento, costruzione insolita per loro, provenienti da Eburacum, che, come tutta la Britannia, non era stata sfiorata dalla civiltà della Grecia e della Magna Grecia. Dopo questa prima esperienza, da Crotone, seguendo la via della transumanza, dovettero raggiungere Trepidò, colonia greca del VI secolo a.C. E qui i romani dovettero assegnare loro la località “i Briganti”, nei pressi della sorgente di acqua “La Rigòla” [7]. Qui dovettero organizzare la loro nuova vita. La Sila (Silva Brutia) dovette apparire loro una terra che non potevano immaginare minimamente, soprattutto se vi sono giunti in primavera (com’è possibile che sia avvenuto, perché allora la Sila per le nevicate risultava infrequentabile e irraggiungibile durante l’inverno e fino a primavera, e soltanto dopo lo scioglimento della neve si poteva raggiungere). Dovettero ammirare la varietà e la ricchezza della flora e della fauna, restare affascinati nel vedere scorrazzare diversi animali dalla volpe alla lepre e incuriositi dai buoi che pascolavano liberamente e tranquillamente negli immensi campi di erba. La natura che hanno trovato era assai diversa da quella che avevano lasciato ad Eburacum, dal clima atlantico, con inverni freddi e piovosi, estati dal clima mite ma con frequenti piogge e poche ore di sole al giorno [8]. Per prima cosa, dovettero provvedere a costruire abitazioni di legno servendosi dei molti pini che avevano a disposizione. Di queste abitazioni non è rimasto alcun segno perché il tempo le ha consumate. Dovettero anche recintare queste abitazioni con palizzate per difendersi, specialmente di notte, dagli attacchi dei lupi.
I Bruzi, indigeni, vedendo questi uomini alti e biondi per la prima volta, dovettero incuriosirsi e avvicinandosi a loro con fare sospetto e prudente dovettero chiedere:
-Quis estis?
-Brigantes sumus.
-Mi Iuppiter! Mi Deus! Hi latrones sunt!
cominciando a colloquiare in latino. Per i Bruzi era naturale, essendo la loro lingua parlata, ma lo era anche per la regina e i suoi funzionari, perché il latino era la lingua ufficiale utilizzata nelle relazioni diplomatiche tra paesi diversi. Nel vedere, poi, che nei primi tempi si erano sistemati su una piccola altura, i Bruzi dovettero chiamare il sito Timparellum [9] latronum [10], a noi pervenuto come “Timparieddu dei latri”. Altri Brigantes dovettero sistemarsi pure allo “Scurcia [11] voi [12]” (‘scorcia buoi’, che significa ‘scarna buoi’, cioè togliere carne ai buoi), sito poco distante dal “Timparieddu dei latri”. È a “scurcia voi” che è avvenuto il ritrovamento delle armi, come ha raccontato in una conversazione amichevole Luciano Belcastro, che ha precisato pure che è stato il fiuto del cane a individuare il ripostiglio dove erano nascoste le armi durante una battuta di caccia, in compagnia del nonno.
Le armi sono di bronzo, sette daghe [13] e due asce [14]. I pezzi furono consegnati a Santo Tiné, noto storico e archeologo, per classificarli [15]. Comprendendo l’importanza del ritrovamento, Tiné studiò attentamente i reperti ed evidenziò l’esistenza di pochissimi riscontri su suolo italiano, specialmente per quanto riguarda le daghe, sottolineando anche il limitato ritrovamento di asce di questa tipologia. Osservò pure che queste armi non possono che essere arrivate in Calabria direttamente dal centro Europa, dove questa foggia di armamento è particolarmente diffusa durante la prima metà del II millennio (n.d.a. 1500 anni a. C.).
Riporto le più importanti caratteristiche evidenziate dal Tiné per poter esprimere di seguito la mia opinione. Le daghe, che sono mediamente di lunghezza pari a 20-21 cm (solo una di 14 cm e un’altra di 17 cm), presentano, nella parte semicircolare, dei fori o dei chiodi, in numero variabile da 3 a 5, mentre l’altra estremità si presenta spuntata e la parte esterna smussata e senza tagli. Solo le asce presentano un solo foro o chiodo.
Riflessione
Il bronzo è comparso in Europa occidentale intorno al 2000 a. C. [16] [figura nella pagina].
Il tipo di armi rinvenuto è comparso intorno al 1500 a. C. nel centro Europa, dove questa foggia di armamento era diffusa, ma questo non vuol dire che le armi trovate in Sila risalgano a quel periodo, perché, constatato che Eburacum intorno al 1000 a. C. era una comunità attiva per il fatto che si trovava sulla via di comunicazione fra la Britannia e la Scozia, si può suppore che le armi siano state forgiate nel periodo poco precedente o prossimo a quello in cui Cartimandua era regina di Eburacum, quando cioè era necessario avere delle armi per difendersi dagli attacchi ovvero per offendere. In origine, queste armi dovevano essere pure dotate di manico, certamente in bronzo, come viene suggerito dalla presenza dei fori o chiodi. Essendo state ritrovate a “Scurciavoi” mi viene però spontaneo pensare che esse siano state successivamente adoperate e adattate per sezionare la carne dei buoi, e che proprio per questa ragione, strisciandole ripetutamente, si siano logorate e spuntate ed abbiano perso il taglio, così come il manico. Associo pertanto a questo corredo di armi una batteria di cucina o di macelleria necessaria per il taglio della carne. La presenza di un solo foro o chiodo nelle asce significa che i manici dovevano essere disposti perpendicolarmente, per soddisfare il compito a cui erano assegnati, cioè, precisamente, quello di asportare la corteccia dei pini oltre a quello di scorticare le ossa dei buoi, operazioni che hanno portato anche alla rottura dei manici.
Commentato il ritrovamento delle armi, passo ad affrontare e commentare la scoperta del dolmen.
Il dolmen
Un dolmen è un monumento sepolcrale dell’età preistorica, formato con pietre infisse verticalmente nel suolo, sormontate da un grande lastrone orizzontale non squadrato e rozzo [17]. Esempi di dolmens sono presenti in Spagna, Francia, Inghilterra e nell’Europa centrale, in Irlanda, nel Galles, soprattutto nei cosiddetti portals dolmens, nelle contee inglesi del Devon e della Cornovaglia, nel Portogallo, in Germania, in Scandinavia [18].
Il dolmen coperto dalle acque dell’Ampollino risponde e corrisponde a questa definizione [come si può constatare dalle immagini a pag. 10].
A differenza delle armi, il dolmen non può essere stato trasportato da un luogo fuori dalla Calabria, ma deve essere stato costruito ed eretto nel posto dove si trova. In Calabria non esiste un modello simile né una tradizione di scalpellini che abbiano potuto produrre o trasmettere opere di questo tipo. Si può ricavare qualche informazione sul dolmen se si indaga sulla tecnica che si usava per ottenere questi lastroni di pietra. Louis-René Nougier ci illustra qual era la tecnica per segare la pietra: “in anni recenti è stata studiata la tecnica dei cavatori egiziani verso il 2800 a.C. Per staccare i blocchi di granito di Assuan, i cavatori delimitavano il blocco scelto con una scanalatura, poi, ogni 10 centimetri, scavavano delle tacche profonde. Dei cunei di legno venivano conficcati e poi bagnati. La dilatazione del legno faceva staccare il blocco. Questo metodo è impiegato ancora oggi dai cavatori bretoni” [19]. Questa informazione fa supporre che tanti popoli come quelli della Britannia, della Scozia e altri, conoscessero questa tecnica o altra ad essa simile o affine per costruire i numerosi dolmens presenti nei loro territori. E questo fa supporre che anche i brigantes di Cotronei conoscessero questa tecnica. Per prima cosa, si può affermare che, a rigor di logica, il dolmen in Sila non risalga all’età preistorica, ma, ragionevolmente, al I secolo d.C.; ciò viene suggerito dal periodo in cui i brigantes si sarebbero stabiliti a Cotronei, ovvero dopo il 70 d.C. I brigantes in Sila dovevano costituire una comunità avente la struttura e l’organizzazione di una piccola colonia romana di rifugiati, di esuli britannici. È naturale che avessero un forte senso di appartenenza e volessero mantenere e conservare riti, costumi e tradizioni dell’antica patria; per questo dovettero erigere il dolmen, come un mausoleo, una tomba monumentale, ovvero come un Pantheon che custodisse la loro storia, la loro cultura, il loro passato.
Il dolmen rimase fuori dall’acqua ed accessibile a tutti fino al 1927, cioè fino a quando fu costruita la diga per contenere e raccogliere l’acqua del fiume Ampollino, necessaria per azionare le turbine delle centrali elettriche di Orichella, Timpagrande e Calusia di Cotronei. Per giustificare l’evento straordinario che il dolmen sia rimasto integro per tanto tempo, esprimo la mia opinione. Fino a quando i brigantes erano viventi e presenti, il dolmen doveva essere considerato e trattato come un luogo di culto e di rispetto, soprattutto per i corpi che ospitava, e suppongo si trattasse dei corpi di Cartimandua e Vellocato. Poi, al tempo in cui la comunità dei brigantes e quella dei Bruzi devono essersi fuse, il significato e l’importanza del dolmen vennero assimilati e fatti propri come patrimonio comune delle due comunità, segno dell’avvenuta e raggiunta convivenza pacifica. A questa interpretazione bisogna inoltre aggiungere la superstizione propria delle genti primitive secondo la quale si pensava che violare o maltrattare il corpo di un defunto potesse essere di malaugurio ed avere come conseguenza l’essere perseguitato dallo spirito del defunto stesso. Questa ricostruzione può spiegare come i brigantes abbiano potuto conservare e perpetuare nel tempo la loro origine e giustificare l’origine del toponimo “I briganti”, località attualmente occupata da civili abitazioni.
C’è perfetta analogia con i Bruttii, termine con cui si indica spesso per metonimia la parte più meridionale della Calabria, e, per estensione, i Bruzi attuali abitanti della Calabria [20] .
Ergo etiam: brigantes, arma, monumentum britanniae sunt. Quod demostrandum erat.
Post-scriptum
Dopo quasi poco meno di 2000 anni, è forse svelato il mistero della sparizione della regina Cartimandua e di Vellocato dalla storia della Britannia: erano ospiti dei Romani in località Trepidò di Cotronei, dove vissero felici e contenti protetti dai Romani.
Per verificare la veracità delle ipotesi ovvero della tesi, basterebbe effettuare un’ispezione sul dolmen non appena il livello dell’acqua del lago si sarà abbassato di quel tanto per rendere visibile i ruderi senza aspettare il prosciugamento totale del lago.
Bruno Amoroso [Cotroneinforma n. 145/2022]