San Lazzaro, il manicomio! O meglio, l’ex manicomio di Reggio Emilia. Voci di periferia proverà a raccontare i pensieri soffocati dai muri delle celle di reclusione del Lombroso. Sì, il Lombroso, l’edificio del San Lazzaro dove ha vissuto e dipinto un grande artista, Antonio Ligabue. Il pittore nacque a Zurigo, in Svizzera, il 18 dicembre 1899. Di padre ignoto, il bambino fu registrato con il cognome della madre, Maria Elisabetta Costa. Fu poi riconosciuto da un italiano originario di Gualtieri, Bonofiglio Laccabue, che nel 1901 sposò Elisabetta e legittimò il piccolo Antonio dandogli il suo cognome, che il pittore cambierà in età adulta in Ligabue. A seguito della tragica scomparsa dell’intera famiglia a causa di un’intossicazione alimentare, fu affidato ancora in fasce agli svizzero-tedeschi Johannes Valentin Göbel ed Elise Hanselmann, una famiglia che versava in disagiate condizioni economiche, a causa delle quali era costretta a continui spostamenti. Il futuro pittore, etichettato come persona dal carattere difficile e con difficoltà di apprendimento, cambiò alcune scuole: prima a San Gallo, poi a Tablat e infine a Marbach dal cui istitito fu espulso per cattiva condotta. Trasferitosi con la famiglia a Staad, tra il gennaio e l’aprile del 1917, in seguito a una violenta crisi nervosa fu ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico a Pfäfers. Espulso dalla Svizzera nel 1919, su richiesta della stessa Hanselmann, fu condotto a Gualtieri, paese d’origine del padre. Dopo un tentativo fallito di rientro in Svizzera, visse grazie all’aiuto dell’Ospizio di mendicità “Carri”. Nel 1920 gli venne offerto un lavoro agli argini del Po: proprio in quel periodo iniziò a dipingere. Otto anni dopo incontrò Renato Marino Mazzacurati che ne comprese l‘arte genuina e gli insegnò l’uso dei colori ad olio, diventando così il suo mentore artistico e forse una delle poche persone in grado di consolidare con il pittore non solo un legame artistico ma anche umano. Furono anni di totale dedizione alla pittura e di vita nomade lungo il fiume padano. Nel 1937 fu ricoverato per atti di autolesionismo al San Lazzaro, nell’edificio sezione Lombroso. I metodi di gestione dell’ammalato prevedevano, oltre alla reclusione in celle di isolamento, l’utilizzo di macchine per l’elettroshock, caschi del silenzio usati per isolare i pazienti, urne per far cadere gocce d’acqua sulla testa del malato al fine di calmarlo, apparecchi per il bagno di luce – che nulla avevano a che vedere con i moderni trattamenti di benessere – e camicie di forza. La sezione Lombroso nel 1911 fu appositamente progettata per ospitare pazzi criminali, dimessi e detenuti alienati. L’edificio in questione è stato ristrutturato di recente, cercando di mantenere intatti i disegni sui muri di tutti i pazienti ricoverati che, probabilmente per non alienarsi dal mondo che fuori esisteva, realizzarono delle opere narranti le vite vissute fuori da quelle mura. Vessazioni e una malsana scienza erano la base dei trattamenti di contenzione dei soggetti che, considerati malati, venivano sottoposti con la forza all’isolamento e in questi luoghi lugubri dimenticati. La storia della psichiatria non è certo facile da raccontare. Voglio però citare un evento che causò uno dei ricoveri del grande artista Ligabue. Il pittore percosse violentemente un militare nazista con una bottiglia: non mi è dato sapere il contesto e le argomentazioni che lo hanno portato a quel gesto, di certo i nazisti e i metodi della psichiatria dell’epoca non brillavano per amore e pacifismo. Nel 1941 lo scultore Andrea Mozzali lo fece dimettere dall’ospedale psichiatrico e lo ospitò nella sua dimora a Guastalla, vicino Reggio Emilia. Durante la guerra fece da interprete alle truppe tedesche. Nel 1948 intensificò la sua attività pittorica, tanto che Il Resto del Carlino e il fotoreporter Aldo Ferrari gli fecero visita a Gualtieri: ne scaturì un servizio sul quotidiano con immagini tuttora celebri.
Chi sono i matti? Chi sono i diversi? È forse un uomo da rinchiudere colui che dipinse opere di imperitura bellezza? Certamente no, ma gli anni di cui stiamo parlando non erano tempi facili per artisti dal carattere forte e persone che esprimevano liberamente i pensieri più profondi senza alcun velo, senza alcuna maschera e di falso quanto superficiale equilibrio psicologico di cui ieri e forse oggi gli individui si travestono prima di uscire dalla porta di casa. Ho lavorato per anni con persone che provenivano dai manicomi, ho udito sapienti dottori usare paroloni come borderline, bipolare, schizofrenia, ecc., ci si fregia di aver abolito i manicomi con la famosa legge Basaglia: ma non è così! Quello che una volta veniva fatto con l’elettroshock, oggi lo si fa con i farmaci. La psichiatria non ha assolutamente trovato alcuna soluzione ai problemi di mente, lo dimostrano i centri di assistenza dove persone bisognose di aiuto vengono semplicemente sedate, e dove ci si impegna poi a diffondere all’esterno un’immagine di luogo riabilitativo o di mantenimento delle capacità residue. La triste verità, a mio modesto avviso, è che la psichiatria non è né la strada, né la soluzione. La chimica non arriverà mai a risolvere i problemi dell’anima, del cuore e della condizione spirituale dell’individuo; la chimica ti stordisce, ti rende indolente, ti fa dormire, creando nel corpo un cumulo farmacologico da smaltire con ore e ore di sonno artificiale. E inoltre degli effetti collaterali devastanti dovuti all’uso di farmaci si parla ancora poco. Non ho la televisione in casa, ma mentre stavo accompagnando una persona anziana che assisto nel luogo in cui lavoro ho guardato le immagini del centro psichiatrico di Savona e gli arresti per le violenze perpetrate ai danni delle persone fragili e con problemi psichiatrici. Ecco cosa succede nei centri di assistenza! E, laddove non succedono queste cose, ci si rabbatta nel far fare a un infermiere o a un operatore sociosanitario il doppio del lavoro, perché questi sono i tempi del risparmio e dei licenziamenti. Tutti gli operatori del settore sono appesantiti da un enorme carico di lavoro, si corre per far tanto e non si ha spesso il tempo per relazionarsi con i pazienti. La relazione, quella condizione in cui il pathos e un gesto d’amore fanno sentire l’altro vivo e importante. Ecco, questo manca o forse manca troppo spesso. Non sarà la chimica usata da ben oltre diecimilioni di italiani considerati normali a risolvere i problemi d’ansia legati al lavoro e non sarà la chimica dei centri di assistenza psichiatrica a risolvere quelli psichici. Occorre ripartire dalla relazione, dalla cultura, dall’amore per se stessi e per il prossimo. Insomma “Platone è meglio del prozac”! È questo il titolo di un libro di Lou Marinoff un testo che regalerei a chiunque. Non c’è pillola capace di farti trovare te stesso e raggiungere le tue mete o guarire dai tuoi mali. E se la filosofia di Platone non serve agli psichiatrici, può servire a noi gente comune per svegliarci dall’inganno di una chimica in pillole risolutrice dei mali.
Dario Vincenzo Grassi
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