E cos’è sta crisi? Sembra un gioco di prestigio dove il denaro sparisce nei paradisi fiscali e crescono i debiti. Debiti pubblici sulle spalle del popolo, dal neonato al centenario.
Parafrasando Gaber, ma con chi ce l’abbiamo? A chi li dobbiamo questi soldi? Perché, nel caso, gli rifiliamo un pacco ed è finita lì, oppure ci prepariamo a pagare in natura.
Né l’uno, né l’altro. Continuiamo a sopravvivere indebitati in una zona di confine, borderline, in un periodo caratterizzato da una caduta della produzione, taglio degli investimenti, disoccupazione incalzante, decadenza delle istituzioni e imbarbarimento della società. Sembra che tutto si sfasci.
In questo quadro di riferimento, non è certamente semplice ragionare di lavoro e di quell’attività umana che produce ricchezza. Non è semplice, perché in questo mondo impazzito il lavoro non produce ricchezza collettiva ma profitto per gli speculatori finanziari, per le banche, per un capitalismo becero e avaro e per una casta politica al suo servizio: tutta gente che ha sottratto capitale prezioso al bene comune e che nessuna legge potrà mai punire.
E da dove si inizia per ragionare di lavoro?
La prendi larga e parti dalla globalizzazione, da questo grande mercato mondiale, con merci prodotte con salari da fame, e che si spostano velocemente tra nazioni e continenti; merci che corrono tracciate, in cielo e in mare, su ferro e su gomma.
Dietro l’efficienza del meccanismo – e lo sanno tutti – c’è un esercito di lavoratori sfruttati e precari, dalla produzione allo smistamento e consegna.
Se si restringe un po’ il tiro – nel ragionare di lavoro – s’arriva in questa Italia che sembra una polveriera. Non esiste settore lavorativo senza vertenze in corso. È bastato un quarto di secolo per spogliare il bel paese riducendolo all’osso.
I gioielli pubblici sono stati svenduti, quasi regalati, inizialmente in famiglia, capitani coraggiosi e banche, poi finiti in mani estere, francesi e tedeschi, inglesi e americani, russi, arabi e cinesi.
Venghino signori venghino, si fanno buoni affari.
Telecomunicazioni, energia, autostrade, sanità, poste, banche, ferrovie, istruzione e chissà cos’altro ancora. Aziende ormai spremute per il profitto privato, ridotte con livelli occupazionali al minimo e, di conseguenza, con un patrimonio nazionale proiettato al depauperamento.
In un quarto di secolo hanno progressivamente falcidiato i diritti dei lavoratori e il potere d’acquisto dei salari: il mercato del lavoro s’è riempito di un esercito di precari senza diritti, con contratti che sembrano scritture private. Si entra statisticamente nelle percentuali di occupazione con un contratto a chiamata di un’ora, un giorno, una settimana. Per tutto il resto dell’anno si campa d’aria.
Una democrazia strutturata su questi indicatori è una democrazia in cancrena.
Da un quarto di secolo, nelle tornati elettorali, i proclami di una politica bugiarda e tanta informazione embedded, raccontano sempre di un milione di posti di lavoro in più e un tasso di occupazione da boom economico. E già.
Fuori dai castelli inargentati dove s’è rinchiusa la politica c’è una società in difficoltà, giovani e famiglie intere che non riescono a campare. È un modello che non regge, perché la ricchezza dev’essere distribuita: c’è di mezzo un’idea di libertà e democrazia nel futuro di questo Paese.
Se si restringe ancora un pezzettino il tiro – nel ragionar di lavoro – s’arriva in Calabria.
Per tassi di occupazione e nella gran parte degli indicatori statistici, la regione di Gioacchino, Telesio e Campanella occupa il fondo delle classifiche. L’ultima regione in questo grande contenitore definito Europa.
Nella Cittadella di Germaneto, la politica del governatorato regionale assolve al compito del grande burocrate, nell’ordinaria amministrazione d’impronta giolittiana, nell’allocazione delle risorse economiche con i bilancini per non alterare equilibri, qualche annuncio e, per il resto, semplice vassallaggio alle volontà dei palazzi romani.
Non c’è trippa per gatti nel palazzo del potere politico regionale, non ce n’è a sufficienza, in uno dei momenti peggiori nella storia repubblicana.
Nel palazzo del potere politico regionale non esiste uno slancio verso altri immaginari, e i giovani calabresi restano esclusi dal mercato del lavoro con l’unica alternativa – tra lacrime e sospiri – di fuggire da questa terra amara.
Infine, se si restringe il tiro ancora d’un altro pezzettino – nel ragionare di lavoro – si arriva a Crotone e al suo territorio provinciale. No, non c’è il lavoro. La città, antica colonia greca della scuola pitagorica, oggi è la capitale europea della disoccupazione, in fondo alle statistiche per qualità della vita e per indicatori economici. Di recente anche il Financial Times si è scomodato per raccontare di Crotone e della sua triste situazione economica.
Non scopriamo l’acqua calda. Non si dice quel che si dovrebbe.
Da città tra le più ricche e prospere del Mezzogiorno, si decise di smantellare la sua economia. La reazione fu forte. Nel 1993 Crotone diede letteralmente fuoco alle polveri, con il fosforo bruciato sulla strada statale 106, il blocco della ferrovia e di tutti i luoghi istituzionali. È passata alla storia come la notte dei fuochi dell’Enichem: ultimo sussulto operaio del Novecento italiano. Storia dal triste epilogo, perché l’establishment se l’era legata al dito e, con il tempo necessario, al territorio crotonese gli hanno lisciato il pelo, chiudendo le fabbriche, consentendo di rubare i soldi della deindustrializzazione e aggirando i tempi per le bonifiche. E non solo.
Da quel momento inizia un lento e inesorabile isolamento: tagliata fuori dall’ammodernamento della statale 106, con la stazione ferroviaria e l’aeroporto chiusi e una rete stradale provinciale peggio del tempo dei Borboni. Un briciolo di economia gira nella gestione dei migranti, nell’energia e, guarda caso, nello smaltimento dei rifiuti, quasi avessero individuato Crotone come la pattumiera d’Italia.
Soltanto per fatti di cronaca si assurge alle luci della ribalta, nelle frequenti inchieste antimafia che fanno saltare potentati economici, criminali e politici.
Crotone e la sua provincia sono un territorio praticamente alla canna del gas.
Non è giusto, non è accettabile per cultura e per storia. Senza prenderla troppo alla lontana, questo territorio vanta una memoria di dignità operaia e contadina che, attraverso le lotte, hanno fatto del lavoro una questione di riscatto e la chiave per l’eliminazione della povertà.
Bisogna ricominciare da dove ci si era lasciati. Non è più il tempo dell’indifferenza. Nulla sarà regalato senza un risveglio popolare, senza che la società civile ritorni ad essere l’unico luogo di elaborazione e risoluzione delle problematiche reali, nella rivendicazione dei diritti, per l’emancipazione di un intero territorio, per il lavoro o per un reddito minimo garantito: condizione di base per tutte le politiche di sviluppo.
Ragionare di lavoro al tempo della crisi, implica ben altri immaginari.
Fondamento di civiltà e sostanza democratica passano dal riscatto e da un nuovo rinascimento per la città di Crotone, per la Calabria, per questa Italia, in una Europa dei popoli e in un mondo senza guerre.
Pino Fabiano
Tratto da: http://cotroneinforma.org/wp-content/uploads/2018/03/134.pdf