L’alternativa nonviolenta alla guerra e a questo modello di sviluppo
Dopo quasi tre anni di pandemia, con una popolazione allo stremo per condizioni economiche e sociali, dal 24 febbraio siamo entrati in un clima di guerra. Non è che ne mancassero guerre in giro per il mondo, ma il conflitto in Ucraina ha assunto una connotazione diversa dalle altre, che ha riportato le lancette della storia indietro di qualche decennio.
Per dirla in modo sintetico, la Nato e l’America hanno fatto uscire dalla tana l’orso russo e siamo ritornati in clima di guerra fredda, con un utilizzo sconsiderato di armi e lo spettro nucleare alle calcagna.
Una sporca guerra alimentata con fiumi di soldi dirottati in armamenti per sostenere l’Ucraina. Il risultato di questo conflitto è percepibile nel territorio ucraino distrutto, nelle scene apocalittiche che i media diffondono e con una popolazione civile vergognosamente massacrata.
Una sporca guerra e, come spesso accade, la prima vittima di questa guerra è stata la verità.
Il governo e i rappresentanti politici, probabilmente in violazione dell’articolo 11 della nostra Costituzione, hanno condannato la Russia di Putin e si sono fatti prendere da una sorta di esaltazione guerrafondaia inviando armi in Ucraina per sostenere il conflitto in atto. Quasi perfettamente allineati alle posizioni governative i media mainstream, ovvero i mezzi d’informazione tradizionali, che hanno fatto sparire dai palinsesti i medici esperti di covid per far posto agli strateghi delle guerre.
Abbiamo assistito a una corale esaltazione delle armi, senza per nulla considerare che esiste pur sempre una alternativa negoziale a qualsiasi guerra, e senza considerare lo spreco di risorse economiche sottratte alla sanità pubblica, all’istruzione, alla ricerca, all’agricoltura, all’occupazione.
Mettersi contro l’autocrate, lo zar Putin non è faccenda di poco conto, perché si mettono in discussione questioni economiche pesanti. La posizione assunta dalla politica italiana è a dir poco discutibile, con risorse economiche destinate alle armi e sottratte ai bisogni collettivi, prendendo forse con leggerezza tutte le implicazioni che tutto ciò comporterà in termini di ulteriore povertà per le classi popolari e per i lavoratori, e poi per l’aumento del costo dell’energia e per la mancanza delle materie prime.
Tutti filoatlantici e contro Putin, anche quanti gli avevano scodinzolato attorno fino a pochi mesi prima. E tutti contro i russi, messi improvvisamente al bando e con un’avversione come fossimo tornati al tempo dell’antisemitismo. Che figure di merda che abbiamo fatto; un caso per tutti il Premio Strega, che inizialmente aveva boicottato Evgenij Solonovich, il massimo italianista russo, traduttore di Dante, Petrarca, Ariosto e Montale.
Questa la narrazione per il primo periodo, diciamo fino al mese di maggio. Quando poi le spinte dal basso, le posizioni degli altri paesi europei, hanno portato elementi di perplessità, in tanti del governo e dei partiti hanno messo da parte l’elmetto, ristrutturando le posizioni con un ritrovato pacifismo. Un pacifismo dalle differenti connotazioni ma pur sempre buono per far brodo, tanto le armi possono continuare ad essere dirottate verso i luoghi del conflitto. La coerenza non è merce di questo tempo che viviamo.
Per tutto questo periodo la retorica sulla ripresa e resilienza è andata in ibernazione, per volontà della politica, per allineamento dei media mainstream.
L’aumento insensato della spesa militare ha pesato proporzionalmente sulla spesa sociale, quella necessaria per la ripresa della vita e del lavoro in Italia. E la politica monta schemi obsoleti e non più sostenibili: tagli indiscriminati sulla sanità e l’istruzione, nuove privatizzazioni dei servizi pubblici locali, un’evidente retromarcia sulla transizione ecologica e perfino la proposta di un blocco dei salari nonostante un’inflazione galoppante.
È una corrente di pensiero politico che abbiamo avuto modo di conoscere negli ultimi anni, che ha creato soltanto un sistema malato fatto di speculazioni e diseguaglianze, non più sostenibile.
In Italia abbiamo bisogno di ben altro, e da nord a sud si sollevano istanze dalle popolazioni: un fermento di anticorpi positivi nutrono una vasta mobilitazione, dalle università ai movimenti, dal mondo del lavoro al precariato, dall’ambientalismo al pacifismo. Prende forma e si struttura un diverso immaginario, nella consapevolezza delle reali necessità per una società più umana e che guardi ai bisognosi, al futuro dei lavoratori e dei pensionati, dei giovani, dell’ambiente, della pace.
Esiste l’alternativa nonviolenta alla guerra. C’è sempre una alternativa negoziale a qualsiasi guerra.
Esiste l’alternativa a questo modello di sviluppo. C’è sempre una alternativa economica e sociale valida per costruire un futuro in questo paese.
Una terra che si spopola
La Calabria si spopola: la popolazione residente è in continuo calo, inarrestabile.
I dati che registrano la popolazione residente in Calabria ci parlano di una crescita pressoché costante fino al secondo dopoguerra e la stabilizzazione tra gli anni Cinquanta e Novanta; poi sempre peggio, mentre dal 2010 nella nostra regione è cominciata una costante caduta che pare, appunto, inarrestabile.
Secondo i dati rilevati dalla terza edizione del Censimento permanente prodotto dall’Istat, al 31 dicembre 2020 c’erano 1.860.601 residenti con una diminuzione di 33.509 unità rispetto all’edizione 2019.
Tra il 2019 e il 2020 solo 48 dei 404 comuni calabresi sono rimasti stabili, mentre sono 356 i comuni dove la popolazione diminuisce. Ormai, andando in giro per la Calabria, specie nei paesi dell’entroterra, si percepisce un senso di solitudine e di tristezza.
Non è difficile comprendere le cause del continuo calo demografico. Innanzitutto la costante emigrazione giovanile, soprattutto intellettuale, che abbandona la Calabria per trovare lavoro altrove. E poi la denatalità. Cause interconnesse poiché all’elevata emigrazione si accompagna sempre un maggiore calo delle nascite.
Di conseguenza, i dati sulla popolazione residente mostrano uno slittamento verso la sempre più forte incidenza degli anziani con la prevalenza degli over 65, e con tutte le implicazioni dal punto di vista sociale, istituzionale e politico.
Nemmeno i migranti fanno la differenza. Per quanto riguarda la popolazione straniera, in Calabria (dati aggiornati al primo gennaio 2021) gli stranieri residenti sono 102.302 e rappresentano il 5,4% della popolazione. Vanno via anche gli immigrati, cercando all’estero i luoghi per ricostruire un percorso di vita. Una così bassa percentuale di stranieri residenti è un valore che, evidentemente, non corrisponde alla percezione del fenomeno, dopo che una certa narrazione sventolava l’invasione dello straniero nelle nostre terre. Altre storie.
La popolazione è diminuita in tutte le province, maggiormente a Crotone che ha perso 4.522 residenti.
La città di Crotone e l’intero territorio provinciale mostra i segni di una enorme sofferenza. Sono ormai trent’anni che Crotone paga un forte dazio per la chiusura delle fabbriche e per la mancata riconversione economica e produttiva del territorio.
Era stata l’ultima città in Italia dov’era scoppiata una rivolta operaia e di popolo nel 1993 con la cosiddetta notte dei fuochi. Forse qualcuno in alto se l’era legata al dito e alla città s’è presentato il conto fatto di lacrime e sangue.
Certo, la città perde popolazione, è ovvio, perché manca il lavoro, perché l’economia è a pezzi.
Quella che resta, però, non è rassegnata, semmai si percepisce una forte indignazione. Nella città di Crotone, come del resto nella gran parte della provincia, esistono delle realtà sociali dinamiche, dallo sport alla cultura, dal volontariato alle sperimentazioni del ritorno dei giovani alla terra. C’è un’umanità in fermento, anche nell’elaborazione di un diverso sviluppo del territorio, partendo dai bisogni. Manca la politica purtroppo, non più riferimento strategico come nel passato; manca il sindacato.
È un tempo dove occorre reinterpretare i percorsi necessari per un riscatto. Le energie ci sono. Per dirla con l’antropologo Vito Teti, la scelta della restanza è un processo dinamico e creativo, conflittuale, potenzialmente rigenerativo tanto del luogo abitato, quanto per coloro che restano ad abitarlo.
Qualcosa di buono riuscirà a mettersi in piedi. Dobbiamo crederci.
C’è sempre una alternativa economica e sociale valida per costruire un futuro nella città di Crotone e nella sua provincia.
Il controllo economico dei bacini idroelettrici
Da qualche tempo, con il giornale stiamo rincorrendo i rumor e le documentazioni sulla questione delle grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico nella nostra regione, se non altro perché il nostro territorio è interessato dagli insediamenti delle centrali e dei bacini idroelettrici.
Di certo l’acqua è la risorsa più importante che abbiamo, e come tale bisogna comprendere quale sarà il suo utilizzo negli anni a venire, quali interessi economici possano girarci attorno, e quanto pesano gli interessi collettivi, delle popolazioni. Quelle stesse popolazioni che con l’arrivo dell’estate si ritroveranno con i soliti problemi nell’approvvigionamento idrico per uso potabile e irriguo.
In questo momento ci interessa focalizzare alcuni punti specifici, rimandando a momenti successivi un ragionamento più ampio sull’intera questione.
La Calabria si va ad aggiungere all’elenco delle Regioni italiane che hanno emanato una disciplina per regolamentare il processo di “regionalizzazione” delle grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico.
Le nuove regole si applicano in caso di scadenza della concessione oppure di decadenza, revoca o rinuncia alla concessione, come previste dalla legge regionale 23 aprile 2021, n. 5, in attuazione a quanto disposto dal Dlgs 79/99, che disciplina le modalità e le procedure di assegnazione delle concessioni di grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico.
Le possibili modalità di assegnazione delle concessioni sono tre: a operatori economici, a società a capitale misto pubblico-privato, a forme di partenariato pubblico-privato.
Attorno alle tre diverse modalità c’è un modo altrettanto diverso di intendere i processi economici. Dentro tutto, ovviamente, passa una visione politica regionale in rapporto ai bisogni delle popolazioni. E l’acqua è il bisogno, per uso potabile quanto per quello irriguo.
La legge prevede che alla scadenza della concessione, al termine dell’utenza e nei casi di decadenza, revoca o rinuncia delle grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico, le opere ricadenti sul territorio regionale passino, senza compenso, dallo Stato alla Regione Calabria, inclusi gli impianti, le attrezzature e i sistemi necessari, in via diretta ed esclusiva, al loro regolare funzionamento, controllo ed esercizio.
Sarebbe auspicabile; per nulla probabile.
Tra i diversi aspetti disciplinati dalla norma regionale, c’è anche un canone di concessione per le grandi derivazioni idroelettriche articolato in una componente fissa e in una componente variabile.
La stessa prevede che una parte dei canoni introitati dalla Regione per l’utilizzo delle risorse del demanio idrico, vengano utilizzati da soggetti pubblici (comuni e agli altri soggetti aventi competenza in materia).
Infatti, la Regione destina la somma pari al dieci per cento degli introiti derivanti dall’assegnazione delle concessioni di grandi derivazioni, al finanziamento degli interventi di miglioramento e ripristino ambientale dei corpi idrici interessati dalle singole derivazioni a favore dei comuni nel cui territorio ricadono i bacini idrografici interessati da grandi derivazioni.
È una percentuale irrisoria rispetto ai canoni introitati. Ci spieghiamo meglio. Un territorio come Cotronei, con i tre salti delle tre diverse centrali idroelettriche, cuba un canone di ben oltre tre milioni di euro.
Questi soldi devono restare allocati sul territorio e con interventi di miglioramento e ripristino ambientale dei corpi idrici finalizzati all’aumento delle risorse di acqua per fini potabili e per uso irriguo.
Ritorneremo a ragionare anche di questo, perché l’acqua è la principale risorsa che può dare una svolta economica al territorio nei prossimi decenni, e i bacini, contenitori di una immensa riserva di acqua, non possono rappresentare un mezzo di sfruttamento economico per i privati senza ricadute per la collettività.
C’è sempre una alternativa economica e sociale valida per costruire un futuro in una piccola comunità, in un territorio provinciale, in una regione come la Calabria.
Pino Fabiano
da: Cotroneinforma n. 145/2022