CREDITO, DEBITO PUBBLICO E TAGLI

[Paolo De Marco]

1 ) Austerità monetarista iscritta nel funzionamento delle istituzioni.

Per chi riesce ad affrontarne il finanziamento senza sacrificare il suo stile di vita tagliando nelle spese essenziali, il debito rappresenta una vera ricchezza. La capacità di finanziare il debito pubblico è strettamente legata alla forma del credito. L’Articolo 47 della Costituzione recita « La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito ». Purtroppo, sin dal 1981-1983, il credito, da non confondere con la moneta, passò sotto controllo privato. Durante questi anni si consumò il divorzio tra Bankitalia ed il Tesoro italiano, subordinando così la nostra banca centrale ai mercati finanziari privati. Sparì dunque la sua capacità di finanziare il nostro indebitamento pubblico e para-pubblico a basso costo. 

Questa transizione rispecchiava in Italia la contro-riforma monetarista lanciata nel 1979-1981 da Volcker, il presidente della Riserve Federale americana (FED) subito appoggiato dal neo-eletto Presidente Reagan. I suoi cavalli di battaglia erano la distruzione dei diritti del mondo del lavoro, l’affermazione della finanza speculativa e del libero scambio emisferico e globale assieme alla riduzione dello ruolo e del peso dello Stato nell’economia, incluso l’obbligo per i 50 States di rispettare il pareggio di bilancio per non gravare sulla fiscalità federale. 

Benché il suo statuto fu sempre ambiguo, fino al 1983 Bankitalia operava come una banca centrale pubblica. Disciplinava il mondo bancario-finanziario determinando i tassi di interesse guida, modulando in questo modo la leva finanziaria e dunque i volumi di credito resi disponibili dalle banche private all’economia. Sopratutto, finanziava il debito statale in modo pubblico, cioè senza dovere accontentare azionari esteri con forti dividendi. Questo fece sì che dal 1945 fino al 1970, cioè durante gli anni della ricostruzione e poi del « miracolo economico italiano », il debito pubblico oscillò tra il 32% ed il 37 % del PIL. Nel 1973, con il drastico aumento del prezzo del petrolio indotto dai paesi dell’OPEP, e poi nel 1980, con la contro-riforma monetarista, il nostro debito pubblico ammontava ancora rispettivamente al 50 % ed al 56 % del PIL. Con la sua banca centrale controllata dal Tesoro, l’Italia fu capace di assorbire i cambiamenti finanziari e commerciali tettonici di quelli anni con relativa facilità. 

Con la trasformazione di Bankitalia in banca centrale interamente privata e sottomessa ai mercati finanziari internazionali privati, il debito pubblico italiano esplose. Già nel 1984 era del 74 % del PIL per salire ineluttabilmente al 99,68 % nel 2007, per raggiungere oggi quasi il 132 % del PIL. Con l’egemonia della « banca universale » si abolì la differenza tra banca di depositi, banca commerciale, assicurazioni e casse di risparmio. Tutto diventò speculativo. Per lo Stato, quando emette le sue obbligazioni, BOT, BTP, CCT ecc., questo significa che deve sottomettersi alla logica di redditività speculativa dettata dalla dozzina di grandi banche private dette « banche primarie ». Per colmo, il livello di rischio del nostro debito pubblico viene dettato dalle agenzie di rating straniere, ad esempio, Moody’s, Standard and Poor e Fitch, tutte con stretti legami con le grandi banche estere. Dato che non esiste una agenzia di rating italiana o europea, il loro giudizio si impone a tutte le istituzioni nella valutazione dei loro investimenti, incluso i fondi di pensioni pubblici o privati. Tale giudizio risponde al bisogno di accumulazione privata assai lontano dagli interessi generali dei Stati e dei loro popoli. Il famigerato spread, cioè la differenza tra il tasso di interesse dei BOT e dei Bund tedeschi, oscilla secondo la loro valutazione del rischio. Per colmo, questo avviene malgrado la fuga ormai quasi completa degli investitori stranieri, particolarmente americani, dai titoli di Stato italiani. La privatizzazione del finanziamento pubblico del debito pubblico divenne così la gallina degli uova d’oro per i mercati finanziari privati.

La contro-riforma monetarista peninsulare fu inaugurata con il famigerato incontro dei nostri dirigenti, Draghi incluso, con alti dirigenti finanziari e politici esteri sulla nave Britannia (2 giugno 1992) e con il cosiddetto Patto Sociale dello stesso anno. La grande e distruttrice onda di privatizzazioni italiana fu lanciata, a cominciare con il cuore del sistema economico-industriale, l’IRI. Oggi rimangono poche quote di grandi imprese nazionali in mano al Tesoro, mentre gli Enti locali controllano ancora alcune imprese partecipate, spesso dedicate ai beni comuni da garantire ai cittadini-utenti. Con la spending review sono ormai anche queste in grave pericolo di essere svendute. 

L’incontro mezzo occulto sul Britannia andava di pari passo con l’adozione del Trattato di Maastricht, firmato nel 1992. Questa logica monetarista aggravò tendenzialmente ed in modo crescente il divario tra il Nord Italia da una parte e il Centro, il Sud e le Isole dall’altra. Nel 2001, il Federalismo fiscale, adottato senza nessuno studio di impatto preliminare, cambiò le competenze tra Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni. Cambiò anche il finanziamento dei vari livelli governativi secondo la logica monetarista-reaganiana. L’attuazione rimase e rimane laboriosa se non altro perché si fa ancora fatica a definire i rispettivi campi fiscali e la cruciale distinzione tra costo storico e costo standard. Questa distinzione è necessaria per stabilire i Livelli Essenziali di Prestazione nazionali in modo da rispettare il principio costituzionale della perequazione tra area ricche e area più disagiate. 

Il degrado socio-economico, culturale e etico-politico di questa Italia monetarista prese una piega per il peggio con la deriva della Zona euro. L’euro ha vari pregi, facilità di scambi intra-comunitari ma, soprattutto, protegge il singolo paese membro dagli attacchi speculativi contro la sua moneta nel caso che le sue politiche non piacessero ai mercati finanziari. Il suo difetto congenito, derivato dall’influenza dell’economista Mundell durante il suo concepimento, è di essere iper-centralizzato. Ne risulta una fatalità statistica: la politica monetaria e finanziaria della Zona euro viene gestita secondo gli interessi del Centro, mettendo in gravi difficoltà le zone più periferiche. Inoltre, con il loro sostegno alla « banca universale » privata contro il credito pubblico, purtroppo sancito dalla nostra Costituzione, i nostri dirigenti hanno accettato la confusione tra moneta – da essere gestita dalla BCE sulla base di parametri decisi a livello politico europeo – e credito, da conservare, almeno in parte, nelle mani pubbliche per finanziare a basso costo il debito pubblico e para-pubblico. Il tasso di scambio dell’euro rimane una competenza congiunta tra BCE e i paesi membri della Zona euro. 

Il deterioramento della situazione economica nella UE e in Italia diventò drammatico con la crisi dei subprime scoppiata nel 2007-2008. Con la famosa lettera di Trichet-Draghi del 5 agosto 2011, la BCE indicò con chiarezza e brutalità ai dirigenti italiani, e indirettamente a tutti gli altri, che la linea da seguire per uscire dalla crisi era una sola. Era quella dell’austerità dettata dalla BCE affiancata dalla Commissione europea, secondo una logica ideata dal Centro come indicato prima. Non solo i nostri dirigenti accettarono ma spinsero questa logica deleteria ben oltre. Per assicurarsi che nessuna alternanza governativa avrebbe potuto mettere in questione questa linea strategica con una semplice decisione governativa, nel 2012 modificarono la Costituzione per inserirci il pareggio di bilancio (Articolo 81) generalizzato all’imposizione del medesimo equilibrio alle Regioni ed agli Enti locali (Articolo 97). Il pareggio di bilancio diventava effettivo nel 2014. L’anno prima della modifica della Carta fondamentale, l’Italia aveva firmato i Two and Six Packs meglio conosciuti come Fiscal Compact. Oltre ad imporre una disciplina istituzionale rigorosamente codificata, ad esempio per la presentazione delle leggi finanziarie – DEF –, il Fiscal Compact andava oltre al Criterio di Maastricht per il debito pubblico, cioè oltre al 60 % del PIL. Ne risultò una implacabile logica di tagli alla spesa pubblica, tagli agli Enti locali, condoni per l’evasione fiscale e privatizzazioni muro a muro con l’obbiettivo di abbassare sistematicamente il rapporto debito/PIL di 1/20 anno dopo anno, fine al raggiungimento del livello fissato dal Criterio di Maastricht. I fatti odierni dimostrano che fu una strategia fallimentare.

2. Sentiero di consolidamento fiscale e tagli alle spese agli Enti locali.

L’anno 1992 fu un vero e proprio spartiacque. L’anno prima, alla Bolognina, il PCI fece il suo harakiri. Il Trattato di Maastricht imponeva Criteri da rispettare, cioè un debito di non oltre il 60 % del PIL, un disavanzo pubblico, e un tasso di inflazione di non oltre del 3 %. Il trattato ispirò il Patto sociale del medesimo anno. Con questo si inauguravano le misure di austerità necessaria per permettere all’Italia di rispettare i Criteri.

L’abbassamento del debito pubblico divenne il leitmotiv delle nostre leggi finanziarie. I tagli effettuati nelle spese pubbliche esacerbarono le tensioni tra Regioni ricche e Regioni disagiate portando al federalismo fiscale (2001). Questa regressione socio-economica prese una brutta piega con la crisi dei subprime del 2007-2008. La UE formalizzò la sua risposta monetarista alla crisi imponendo una logica ferrea ai suoi paesi membri, usualmente conosciuta come Fiscal Compact. Vogliamo brevemente spiegare perché questa strategia dell’austerità autolesionista non è razionalmente sostenibile né al livello nazionale né al livello locale.

Il Fiscal Compact propone di risanare i conti pubblici abbassando il rapporto debito/PIL grazie all’implementazione di « un sentiero di consolidamento fiscale » neo-liberale monetarista. Il concetto chiave è quello di coprire il disavanzo pubblico, o deficit, con l’avanzo primario e con la crescita del PIL, in modo da indurre una tendenza al ribasso del rapporto debito/PIL. L’avanzo – o disavanzo – primario equivale alla differenza tra le entrate e le uscite fiscali al netto del finanziamento del debito. Oggi, l’avanzo primario vale attorno a 1,5 % del PIL, mentre il costo del finanziamento del debito ammonta attorno a 4 %. Se il PIL è stagnante oppure se la sua crescita non produce un reale incremento delle entrate fiscali, allora il deficit sarà di 2,5 % del PIL. 1 % del PIL valendo 17 miliardi di euro nel 2017, il debito pubblico crescerebbe del 17 x 2,5 = 42,4 miliardi di euro. Oggi, i settori speculativi resi autonomi dalla cosiddetta economia reale formano una parte crescente del PIL. Danno l’illusione della crescita ma producono poca ricchezza vera, e dunque poche entrate fiscali.

Nel 2014 cambiò la contabilità nazionale all’interno della UE. Procedendo ad una nuova valutazione della droga, della prostituzione, dell’evasione fiscale, di certi elementi della cosiddetta economia immateriale – diritti di autori sui vari software ecc. –  e di una parte delle spese per gli armamenti, furono aggiunti artificialmente da 3 % a 3,5 % al PIL. In questo modo, gonfiando il valore del PIL, si poteva paventare un rapporto debito/PIL contenuto, in modo da potere pretendere che i sacrifici richiesti dall’austerità incarnata dal sentiero di consolidamento fiscale, pagavano. Invece, dopo il 2014, la crescita del PIL risultò molto contenuta. In questo contesto quando si parla di 1 % di crescita, in realtà, rispetto alla contabilità anteriore, siamo vittime di una crescita negativa del 2 % al 2,5 %. In effetti, il volume del debito cresce nonostante le parole vuote sul suo rapporto al Prodotto Interno Lordo del Paese.

Per abbassare il rapporto debito/PIL con entrate fiscali deboli anche a causa della perdita di progressività della nostra fiscalità, si incrementa l’avanzo fiscale con i tagli nelle spese pubbliche – spending review – e con le privatizzazioni. Come illustrato nel caso di Autostrade queste sacrificano i dividendi annualmente versati al Tesoro in cambio di un ricavo una tantum durante la vendita. Questa logica dei tagli elimina l’operato virtuoso del Moltiplicatore sociale. E, difatti, l’Italia non ha ancora raggiunto il livello economico prevalente prima del 2007.

Il sentiero di consolidamento fiscale è un fallimento clamoroso male mascherato dalla modifica della contabilità pubblica nel 2014. Oltre all’Italia, la Francia, la Spagna, il Portogallo e il Belgio non sono più in linea. Per conto suo, la Grecia, avendo accettato la tutela della UE e del FMI, applica ormai un programma di risanamento sperimentato negli anni 80-90 ai paesi africani.  

Non basta rimettere in questione il Fiscal Compact.  Sin dal divorzio di Bankitalia col Tesoro (1981-1983) il debito pubblico italiano è in mano alle grandi banche speculative secondo una logica del rischio dettata dalle agenzie di rating straniere come Moody’s, Standard and Poor’s o Fitch. Nel 1945, nel 1970 e nel 1980 il nostro debito pubblico era rispettivamente del 32% del 37 % e del 56 % del PIL. E chiaro che senza il ricorso al finanziamento pubblico del debito pubblico non esiste nessuna «uscita di sicurezza» fuori da questa crisi finanziaria-economica.

La politica dei tagli al livello dello Stato centrale e degli Enti locali è devastante anche per l’estrema rigidità introdotta nel 2012 dal pareggio di bilancio a tutti i livelli governativi. A causa dell’austerità indotta dal sentiero, il nostro Paese non cresce, la produttività del suo tessuto industriale minaccia rovina sostenuta solo da una forte deflazione salariale, il lavoro precario e atipico esplode mentre la povertà assoluta tocca oltre 5 milioni di persone e la povertà relativa il 20.6 % della nostra popolazione. Oltre 11 milioni di persone rinunciano alle cure mediche e benché l’aspettativa di vita si allunga, gli anni vissuti in buona salute dei nostri seniors diminuisce. Il cosiddetti Neet, giovani che non studiano né lavorano, è drammaticamente alto. Oltre 5 milioni dei nostri concittadini furono costretti ad emigrare sin dal 2007. Riassumendo il tutto, nel 2016 e 2017 il bilancio demografico fu negativo da oltre 100 mila persone per anno malgrado l’apporto degli immigranti. Nel Rapporto 2018, la Corte dei conti prevede la «riduzione della popolazione, da qui al 2070, per circa 6,5 milioni di abitanti» (p. 4). Da qui al 2065, la Calabria perderà 400 mila abitanti sui circa 2 milioni attualmente dichiarati come residenti. 

In effetti, il meccanismo di perequazione, cioè di solidarietà nazionale tra regioni ricche e regioni meno agiate, non funziona più. Il federalismo fiscale aveva sostituito i trasferimenti agli Enti locali con due fondi di solidarietà, uno verticale dallo Stato ai livelli locali, l’altro orizzontale dai Comuni ricchi ai Comuni disagiati. Il primo scoglio fu la difficoltà di definire i costi storici e i costi standard necessari all’implementazione della perequazione in modo da assicurare i Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) ancora oggi non definiti. A gran pena, si arrivò a definire i LEA per la Sanità pubblica, ma nel contesto del contenimento ferreo della spesa pubblica. Dal 2012 ad oggi prevalse questa logica del contenimento. Basta guardare le nostre strade e il dissesto generale del territorio per afferrare l’enormità monetarista di tale scelta. Sin dal 2017 si cerca di rilanciare modestamente gli investimenti al livello locale.

Secondo la Corte dei conti  dal 2008 al 2015 gli Enti locali subirono tagli da 39,5 miliardi di euro, 22 miliardi di trasferimenti statali e 17,5 miliardi al titolo della Sanità. Per il 2019, i fondi del Patto verticale ammonta ad un può meno di 1 miliardo di cui 400 milioni per l’edilizia scolastica e 100 milioni per gli impianti sportivi. Si tratta di una logica di emergenza che riguarda pure le aree vittime di sismi. Eppure, valutando la disciplina interna, la Corte dei conti (2018) parla di overshooting per 8,5 miliardi non utilizzati per mancanza di richieste per gli appositi «spazi finanziari».

Il Patto orizzontale tra Comuni ricchi e poveri ammonta a 4,7 miliardi di cui 4,3 miliardi ridistribuiti tra i Comuni e 400 milioni versati direttamente nelle casse dello Stato. In effetti, secondo Ifel Informa «I Comuni, dal 2011 al 2015, hanno subito tagli per nove miliardi di euro, il contribuito più alto al risanamento dei conti pubblici». Intanto, sempre nel suo Rapporto del 2018, la Corte dei conti nota che l’Italia – paese con disuguaglianze estreme – è tra i Stati che hanno utilizzato meno la leve fiscale per tentare di uscire dalla  crisi (p. 30).    

Gli effetti per la Calabria sono devastanti. Alcune fonti notano che in Calabria ci sono «103 comuni in rovina». Un livello ISE di 3000 euro di reddito annuo familiare in una Regione con un tasso di occupazione di soltanto il 42 % basterebbe per questionare il principio costituzionale della perequazione applicata all’assistenza sociale. In materia di Sanità, le cose peggiorano senza sosta. Da noi come altrove furono imposti dei Piani di Rientro, per colmo incapaci di fare rispettare la proporzionalità massima legalmente stabilita ad 1/3 delle strutture private rispetto a quelle pubbliche. Con la mancanza degli investimenti ed il blocco mirato del turn over a scapito delle infermiere/i e del personale di sostegno, il sistema si deteriora inesorabilmente anno dopo anno, causando una mobilità passiva nel 2017 per la nostra Regione di oltre 304 milioni di euro. Rimandiamo qui al nostro articolo: La Sanità tra tagli e corruzione: vittima eccellente del federalismo fiscale  (nella categoria Sanità del sito http://rivincitasociale.altervista.org )   

Questa disastrosa litania potrebbe essere facilmente allungata. Per correttezza, ai tagli nei fondi perequativi bisognerebbe aggiungere la pesantezza spesso confinante alla mala amministrazione dei nostri enti regionali. Ad esempio, l’incapacità di ottimizzare i fondi europei. Basta ricordare che, ad oggi, sui 339 milioni di euro del Fondo sociale europeo per il 2014-2010 destinati alla Calabria, solo 8,4 % furono utilizzati, malgrado il disaggio sociale e la disoccupazione stratosferica… L’austerità monetarista con il suo sentiero di consolidamento fiscale stanno portando il Paese verso uno sfascio quasi irreversibile.

Paolo De Marco

San Giovanni in Fiore, 23 ottobre 2018

Nella foto di Paolo De Marco: poesia All’Italia disposta sulla tomba di Giacomo Leopardi a Napoli.

 

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